Umberto Di Stilo, giornalista e scrittore, nel dicembre del 1993 incontrò Giuseppe Pesa (1901-97) apprezzato esponente di un artigianato artistico ormai pressoché scomparso.
I personaggi del presepe di Pesa restituiscono, con poesia e verità, l’immagine di una Calabria antica, così come l’autore l’ha conosciuta ed amata. Ci piace ricordarlo proponendo l’intervista che a lui fece Umberto Di Stilo.
Umberto Di Stilo
A Seminara, dove vive da circa mezzo secolo, è conosciutissimo. Tutti sanno indicare la sua abitazione al numero civico 55 della centralissima via Barlaam, a pochi passi dal santuario della “Madonna dei Poveri”.
Per avere indicazioni e notizie sulla sua produzione e sul suo stato di salute, basta chiedere, sia pure in modo evasivo, del pasturaru, dell’artista che per decenni, e sempre con successo, si è dedicato alla creazione di statuine per il presepe e che applicandosi con estrema passione si è guadagnato un posto di rilievo nel mondo artistico delle terrecotte.
Lo testimoniano concretamente i suoi diversi “pezzi” che, in tempi diversi, sono entrati a far parte di private collezioni e alcune statuine che, per la loro importanza artistica, oltre che sociale, sono diventate patrimonio del Museo dell’Etnografia e del Folklore di Palmi.
La signora Concetta, figlia dell’artista, in due vetrinette, tiene ben esposte numerose statuine.
Sono le ultime opere dello scultore che, acciaccato dagli anni, standosene seduto su un divano, le ammira con un pizzico di orgoglio, rimpiangendo il tempo in cui attendeva alla loro creazione e in cui, operando febbrilmente sotto l’impulso creativo, dalle sue dita, che con sicurezza e maestria lavoravano l’argilla, vedeva nascere suonatori di zampogna, pifferai, giovani e premurose donne con in testa la cesta dei doni, contadini al lavoro nei campi, re magi e tutte quelle tipiche figure che da sempre fanno parte della classica iconografia del presepe.
«Le mie mani non sono più sicure, diversamente avrei ancora continuato a lavorare», si affretta a dichiarare. E aggiunge: «Ho ancora la voglia di modellare, ma le non buone condizioni di salute non mi permettono di tenere fermi gli attrezzi. Perché, vedete, tutto quello che ho creato l’ho fatto con il solo aiuto di una stecca e poi, in fase di rifinitura e di colorazione, di alcuni pennellini. Ma per usare questi attrezzi le mani devono essere ferme, invece le mie…».
E, mentre un velo di tristezza scende improvvisamente sul viso che il tempo, implacabile, gli ha segnato di profonde rughe, istintivamente, con occhi ancora vispi, si guarda le mani che tremano sotto il peso degli anni e di qualche immancabile acciacco.
Ciononostante Giuseppe Pesa, l’ultimo pasturaro di Calabria, parla con sicurezza e se non fosse per l’udito che in questi ultimi anni si è sempre più indebolito, non dimostrerebbe le sue rispettabili 92 primavere.
Lucidissimo, sulle ali del ricordo, ripercorre tutta la sua vita, da quando – il 10 maggio del 1901 è nato a Briatico – fino a un giorno di due estati addietro, quando si è reso conto di non essere più in grado di lavorare.
«Quello è stato il più triste giorno della mia vita, anche se, specie in gioventù, durante gli anni difficili del primo conflitto mondiale, i giorni neri non sono mancati.
«È triste dover chiudere l’attività che ti ha dato da vivere e che ti ha riservato innumerevoli soddisfazioni…. Ma contro le leggi di natura nulla è possibile. Bisogna rassegnarsi, ringraziando il Cielo per quanto fino ad oggi la vita ci ha dato».
Apprendiamo, così, che sin da bambino ha seguito il padre, Pasquale, che, santaro e apprezzato decoratore, era chiamato in tutti i paesi della Calabria per restaurare chiese e statue e per rendere più accoglienti le case dei nobili e dei ricchi.
Aveva appena otto anni (e si cominciavano a rimarginare le ferite prodotte dal terremoto del 28 dicembre 1908) quando la famiglia Pesa aprì bottega a Palmi ove si era trasferita perché in tutta la zona era assai richiesta l’opera degli artisti-restauratori-decoratori come suo padre Pasquale. E fu proprio a Palmi che l’attività dei Pesa divenne intensa.
Sin da ragazzo, però, pur non disdegnando il delicato lavoro di restauro, Giuseppe Pesa si è sentito attratto dalla scultura e, seguendo il suo naturale istinto, al modellaggio dell’argilla ha dedicato tutti i suoi momenti liberi, scoprendo che gli erano sufficienti pochi e misurati tocchi perché l’argilla assumesse la figura, le fattezze e le tipiche espressioni delle persone che gli vivevano vicine.
Inizialmente fu come un gioco. Poi quando imperioso si fece il momento creativo, Peppino Pesa si recò per due anni a Roma per lavorare in una fabbrica di statue e successivamente, tornato a Palmi ha frequentato per un anno la scuola di disegno sotto l’esperta guida del professor La Scala.
«Lo studio della figura mi è stato molto utile – afferma – così come preziosa fu la permanenza a Roma. Sapevo modellare l’argilla, ma senza l’esperienza formativa romana sarei rimasto un eterno dilettante».
A quel tempo non era stato, ancora, scoperto l’uso della plastica, per cui i “pastori” del presepe erano fatti in terracotta o gesso.
La moglie, Maria Rosa Fiorio, divenne la sua più valida collaboratrice. A lei, infatti, è sempre stato affidato il delicato compito di procedere alla cottura delle statuine perché l’argilla si trasformasse in terracotta. E poiché questo lavoro era effettuato nei mesi estivi, l’anziana signora, con un sorriso appena abbozzato, ricorda che al caldo afoso di agosto si aggiungeva quello infernale che scaturiva da quella capiente furnacetta di ferro in cui, con molta cautela, si facevano cuocere le delicate figurine di creta.
Per ogni statuina che, con estrema cura, ci porge la figlia Concetta, Pesa ne illustra caratteristiche e significato.
«Questo è il giovane calabrese che festeggia la nascita di Gesù al ritmo della tarantella. Notate che indossa i costumi tipici dei pastori di Aspromonte, in particolare quelli di Cardeto… Questo è il carretto degli zingari. Ho avuto l’idea di riprodurlo nell’argilla un giorno di alcuni anni addietro allorché vidi passare questa famigliola a bordo di uno sgangherato carretto, trainato da un vecchio e stanco asino… ».
Quel che colpisce, al di là dei piccoli particolari – il tripode di ferro penzolante dalla sponda del carretto – è l’abilità con cui l’artista ha saputo dare naturalezza all’atteggiamento della donna che seduta sul sedile posteriore della rustica vettura, per reggersi meglio si appoggia alla spalla del marito. Un gesto consueto, ma Pesa è riuscito a dare vita alla sua creta restituendoci la delicata e soffusa tenerezza che lega i due anziani nomadi.
Nell’universo artistico di Pesa, diversi sono i pastori a piedi nudi. Questo particolare rispecchia le condizioni sociali del tempo, giacché la realtà è sempre stata l’unica, inesauribile ispiratrice dell’artista pasturaru.
Molte sue opere s’ispirano al mondo contadino calabrese. Nella loro semplicità rispecchiano la storia sociale e civile delle nostre contrade rurali. Oltre a costituire le tessere preziose di quel mosaico artistico che Giuseppe Pesa, con modestia e costanza, ha realizzato in tantissimi anni di paziente lavoro. Sono soprattutto l’inno all’arte popolare che, in Calabria, forse proprio nel pasturaru di Seminara ha trovato il suo ultimo genuino cantore.
Delicatamente poetica è la coppia di anziani che avanzano a braccetto. La donna all’arcolaio che raccoglie il cotone, il banditore, la massaia che dà il mangime alle galline, il macellaio che, in attesa di clienti, insegna a leggere al figlio, il vecchio suonatore di organetto, la “strage degli innocenti” nella quale una madre atterrita stringe fra le braccia il suo pargoletto, sono opere che, per la loro fedele rispondenza al mondo contadino che le ha ispirate, prim’ancora che per la loro bellezza artistica, meritano di stare nei più rinomati musei di arte popolare moderna. Di quell’arte, cioè, che non conosce accademie e che scaturisce spontanea.
Ma quanti sono i soggetti che Giuseppe Pesa ha realizzato in oltre 70 anni di intensa attività artistica?
Alla domanda non sa dare (né può darla, in verità) una risposta neppure l’artista.
«Sono molti, moltissimi», si limita a dire. «Impossibile ricordare… Quanti pastura ho fatto? », si domanda. «E chi lo può sapere! Sono sicuramente diversi migliaia, tra quelli grandi realizzati appositamente per le chiese e quelli piccoli adatti ai presepi familiari. Tanti, tanti – conclude – ma in ognuno di essi c’è un pezzo della mia vita, un pezzo della mia inventiva e un pezzo della nostra terra, con le sue tipiche figure e con i suoi caratteristici, colorati costumi…».
Prima di congedarci chiediamo come si appresta a vivere il Natale.
L’anziano artista non ha tentennamenti: «Sarà assai triste perché per la seconda volta dopo tantissimi anni d’intensa attività, non ho preparato qualcosa di nuovo e perché penso con rammarico che non avendo né mio figlio, che vive e lavora a Milano, né alcuno dei miei nipoti ha seguito la mia attività, con me finirà l’arte dei santari e dei pasturari veri… di quelli, voglio dire, che come materia prima adoperavano la creta e che come unico strumento di modellaggio usavano le dita e qualche stecca di canna o di acciaio… ».
Poi Pesa gira lo sguardo verso un angolo della stanza come per fissare qualcosa, come per inseguire un sogno lontano, iniziato nelle “rughe” e nei vicoli di Briatico e conclusosi un giorno di due estati addietro qui, a Seminara, paese in cui a pieni polmoni, da secoli, si respira la difficile e millenaria arte delle terrecotte.