È uno dei tre preziosissimi codici purpurei illustrati conservati in Europa,
restituitoci nella sua originaria bellezza dal restauro conclusosi nel 2014.
Quale la sua origine? Quando arrivò in Calabria? Per quail vie? Chi lo portò?
Quale il suo significato storico e religioso?
Il prof. Guglielmo Cavallo, uno dei massimi studiosi italiani di storia della scrittura greca e del libro manoscritto, ci aiuta a districarci tra le possibili ipotesi
Antonio Minasi
Nel 1831, il canonico Scipione Cammarota, trova casualmente, sepolto sotto un cumulo di vecchie carte, nell’archivio della Cattedrale di Rossano, antica sede diocesana di rito greco, un codice composto da fogli di pergamena color purpureo, con testi e splendide miniature con le storie della Passione di Cristo. È una scoperta straordinaria e se non volessimo indebitamente mescolare sacro e profano potremmo paragonarla, per il suo valore storico e artistico e per l’epoca in cui è avvenuta, come al riemergere da un passato remoto dei Bronzi di Riace.
Indicato da subito come il Rossanensis purpureus, il codice diviene largamente noto dopo il 1846.
«Nel secolo scorso, a parte gli studi d’ambito specialistico, la conoscenza del codice si accrebbe grazie soprattutto alle mostre nazionali e internazionali, tante, in cui fu esposto, ora in originale ora in facsimile, offrendosi all’ammirazione e allo stupore di un pubblico quanto mai vasto fino a una identificazione tra il codice stesso e la città in cui si è conservato, Rossano».
Sono parole del prof. Guglielmo Cavallo, uno dei massimi studiosi italiani di paleografia e storia della scrittura.
«Il significato più profondo del codice purpureo di Rossano si può cogliere pienamente quando lo si guardi e lo si interpreti come riverbero e simbolo dell’età tardoantica: epoca di inquietudine spirituale, di transizione tra società e culture antiche e nuove per l’affermarsi ultimo del cristianesimo.
«La carica di spiritualità che vi è insita è restituita, innanzi tutto, dal colore della pergamena e dalle sue valenze simboliche. Il nesso tra porpora e sangue richiamava il sangue versato da Cristo sulla Croce, e da quanti per il trionfo della Croce avevano dato la vita. Purpurei sono dunque i martiri. Altresì la porpora non era solo correlata al simbolismo del sangue espiatorio versato sulla Croce, ma anche al colore della tunica fatta indossare a Cristo per irriderne la regalità che, insieme alla corona di spine, quel colore evocava.
«Con Costantino e in epoca successiva, la porpora, come simbolo congiunto del potere imperiale e della sacralità divina, una volta proiettata sul libro sacro, ne faceva oggetto di adoratio e di pompa liturgica in occasione di cerimonie sacre».
Da non sottovalutare poi come il Rossanensis rappresenti un sistema di comunicazione con caratteristiche proprie. «Diversamente dall’epoca più antica», avverte Cavallo, «quando il testo s’interrompeva per fare posto alle figure che lo illustravano o lo interpretavano, nel codice di Rossano le immagini non solo hanno conquistato piena autonomia, ma raggruppate in fogli o quadri all’inizio del manoscritto assumono la funzione propria di un testo narrativo producendo un discorso visuale. Nella comunicazione autonoma ed equivalente delle immagini rispetto allo scritto, si coglie l’intendimento della Chiesa di provvedere all’edificazione delle anime in un’epoca nella quale la comunicazione non solo scritta ma anche orale diventa sempre più difficile per l’accrescersi del numero degli analfabeti e per l’irrompere sulla scena di gentes nuove.
«Da qui il ricorso a tecniche formali complesse, atte a esaltare in senso visivo scrittura e libro fino a farne un oggetto simbolo. Vi contribuiscono, come nel codice di Rossano, imponenza del formato, architettura della pagina, sfondo cromatico del supporto, monumentalità dei segni grafici, uso di inchiostri aurei e argentei, i quali tutti sfociano in una sintesi estetico-figurale atta a rimandare, al pari dell’immagine, il messaggio spirituale e l’emozione del sacro. Il libro entra, così, nell’immaginario individuale e collettivo come forma ‘totale’ di rappresentazione del sacro».
Ma quali sono state le vicende del Rossanensis purpureus prima che il canonico Cammarota lo riportasse alla luce? Quando fu introdotto dall’Oriente in Occidente e specificatamente in Calabria? Per quali vie? E quali individui o comunità ne furono i veicoli concreti? E dove si conservò attraverso i secoli?
«Sono tutte domande destinate a restare senza risposte certe. Si può cercare solo di formulare ipotesi accettabili e peraltro non univoche. L’Italia centro-meridionale era nella tarda antichità e tanto più continuò a essere più tardi crocevia e meta di greco-orientali per convergenti motivi geografici, etnici, politici.
«Dal VII secolo – ondate di greco-orientali, soprattutto monaci ma anche elementi del clero e laici, giungevano in particolare da Egitto, Palestina, Siria.
«Si trattò, altresì, di migrazioni non solo d’individui ma pure di modelli, quali soluzioni artistiche, formule liturgiche, istituti giuridici, e di oggetti, tra cui icone, avori, libri. A emigrare da Bisanzio e dai territori a est di Bisanzio nell’Italia meridionale – circostanza da sottolineare – era anche gran parte della classe dirigente, laica ed ecclesiastica, tanto che alcuni tra i papi ‘greci’ dal 642 al 752 provenivano o dalla Sicilia o dalla Calabria: classe sociale ristretta, ma che deteneva e trasferiva in queste regioni modelli e oggetti.
«Il Rossanensis purpureus, dunque, può esser giunto in Calabria mediante una di queste ondate d’immigrazione, direttamente o passando prima attraverso la Sicilia o magari Roma. L’invasione araba della Sicilia da una parte e la destrutturazione dell’elemento greco a Roma dall’altra determinarono più tardi una varia dislocazione di materiali greci che trovò un ricettacolo privilegiato nella Calabria bizantina dei secoli IX e X. Gli itinerari dei libri, infatti, possono essere talora molto tortuosi e complessi.
«Proprio per questo, senza escludere che il codice di Rossano sia giunto in Calabria altrimenti, per altre vie e in tempi più recenti, dopo la conquista normanna o magari in età moderna, è comunque da chiedersi dove esso possa essersi conservato.
«Quando si parla di Rossano, immediata è l’associazione tra la città e quella che Pierre Batiffol fin dal 1891 ha innalzato quasi a simbolo del monachesimo e del libro monastico italo-greco, l’Abbaye de Rossano, vale a dire Santa Maria del Patir. Qui nel medioevo fu prodotta una quantità notevolissima di manoscritti, e qui confluirono da regioni greco-orientali diverse codici dei secoli V e VI, riutilizzati più tardi per scrivervi altri testi.
La presenza a Rossano del Codice è testimoniata tra gli anni trenta e quaranta dell’Ottocento. È lecito pensare che qui si conservasse da tempo pur se non si può dire da quanto.
«L’istituzione formale della Chiesa greca in Calabria – ragiona il prof. Cavallo – avvenne nel corso del secolo VIII, ma un’ellenizzazione, man mano sempre più intensa, della regione e della stessa Chiesa è da ammettere fin dal secolo precedente, legata com’era alle ondate migratorie di greco-orientali. E alcuni di questi, di più alto rango e di più elevata cultura, vennero a costituire la nuova classe dirigente della Chiesa calabra fino a raggiungere talora lo stesso soglio pontificio.
«Un’ipotesi possibile è che i Vangeli purpurei siano stati acquisiti dalla Chiesa di Rossano, conservandosi quindi per secoli nella Cattedrale, in un arco di tempo tra l’ellenizzazione della Calabria, della sua Chiesa, delle sue gerarchie e il costituirsi e rinsaldarsi della diocesi rossanese. Sicuro in ogni caso è che la vicenda del Rossanensis purpureus venne a legarsi indissolubilmente a Rossano, e Rossano vuol dire la Calabria, la regione che per testimonianze archeologiche, tradizione di pietà, costumi, dialetti conserva, forse più di qualsiasi altrove, il segno e il ricordo dello stretto legame tra l’Italia e la Grecia antica e medievale».