Giulio Palange ha scritto questo riccordo del Natale a meta degli anni ’80 del secolo scorso. Cosa è rimasto, cosa è scomparso?

Giulio Palange  

Chi ha vissuto una certa realtà calabrese, sostanzialmente omogenea dal Pollino a Capo Spartivento quanto ad usi e costumi,  a tradizionalità e sentire, e magari irretito da un ricordo, un profumo, un suono, non se n’è uscito, col miele della nostalgia in bocca, in un’esclamazione tipo “ah, il Natale di una volta!”, scagli la prima pietra. Perché è innegabile, e fatale, che costui si porti comunque dentro, quasi ordito della memoria, tracce in certo senso mitiche del Natale. E quando si dice Natale s’intende, ovviamente, tutto il ciclo di festività e ferialità comprese fra la Vigilia e l’Epifania, con il prologo irrinunciabile dei “giorni contati”, quelli a partire da S. Lucia, e con l’epilogo altrettanto irrinunciabile dell’uccisione del maiale. Evento, questo, peraltro centrale nel quadro della “cultura della provvista e della parsimonia” imposta da una storia matrigna, e “chi prima pensa poi non piange”, e, poi, “son più i giorni che le salcicce”; e, fra l’altro, la dice assai lunga in merito il grido “allàrgati pancia mia se no ti stracci”, ebbro, attrippato, liberatorio peana della grande bouffe natalizia, fisiologica valvola di sfogo alla incupente e persistente, cultura quotidiana di segno “quaresimale”.

Comunque, e in definitiva, è vero: fino a qualche tempo fa il ciclo natalizio in fondo non era fatto di giorni particolari, e ricorrenze da celebrare e quant’altro, ma di un’atmosfera affatto speciale e che, nel bene e nel male, stendeva su tutto e tutti un impalpabile pulviscolo d’oro, un’atmosfera di misticismo sospeso e non necessariamente cattolico in senso stretto in quanto era un generalizzato stato psicologico di grazia, nel contesto del quale ogni fatto o gesto assumeva una sua pur dimessa  e  oggi, nel ricordo, intrigante ritualità. Un’atmosfera, infine, e a ragionarla col senno di poi, alla persistenza della quale nel tempo, hanno contribuito tante circostanze, fra cui, per un verso, l’isolamento delle “piccole patrie” arroccate, ognuna, attorno al campanile, le generali e non certo felici condizioni di vita a livello non solo “popolare”, un sentire dal taglio magico-religioso che era proiezione speculare, per dirla con Ernesto De Martino, dell’essere nella storia senza coscienza di esserci; e, per altro verso, il chiudersi d’un ciclo annuale con tutto il suo bagaglio, individuale e collettivo, di risultati, progetti, aspettative e, specie, speranze sotto il segno beneaugurante e propiziatorio d’una nascita prodigiosa, e della nascita d’un “redentore” per di più.

Mentre oggi …

Sì, di zampognari se ne vedono e se ne sentono ancora in giro, e nelle case s’allestisce ancora il presepe; sì, i grandi falò ardono puntualmente sulle piazze dei paesi, e gli “strinari” vanno ancora di porta in porta ad augurare buonasorte – o, come in molti centri, a spubblicare i panni sporchi dei padroni di casa, a memoria delle denunzie pubbliche romane, atte ad eliminare il negativo comunitario -, e la befana vien sempre di notte con le scarpe tutte rotte; sì, al cenone della Vigilia, per esorcizzare la malafortuna e non rompere la tradizione che sarebbe come vagare alla cieca nel mar dell’ignoto, si continuano a portare in tavola le pietanze canoniche in numero canonico, nove o tredici, secondo i luoghi; e tale numero una volta era d’obbligo anche per il pasto degli animali da stalla, che, se in quelle ricorrenze non mangiavano a sazietà e, appunto, secondo i canoni, a mezzanotte spaccata si mettevano a parlare, mandando brutte bestemmie ai loro padroni ingrati… Solo che l’acqua che le donne di casa,  restando sempre in silenzio e tutte ammantate per non farsi riconoscere, magari ancora vanno ad attingere alla fontana pubblica durante la notte santa, non è più “acqua muta” e non è più un toccasana per ogni malanno; e nelle notti “fatali” l’acqua dei fiumi e delle fontane non diventa più olio come una volta accadeva – anche se solo per alcuni fuggevoli istanti, e anche se solo per i semplici ed i puri di cuore – e le pietre delle case non si trasformano più in prosciutti, e i frutti pendenti dagli alberi non diventano più d’oro zecchino.

E questo perché il Natale oggi ha perso tutta la sua magia e la sua magicità, la sua aura, la sua, in definitiva, identità socio-culturale, e il far le cose rituali è vissuto diversamente da come lo si viveva una volta, e già solo a rievocare tutta l’antica trama rituale di gesti e accadimenti, reali o immaginari, religiosi o magici che fossero, si ha la straniante sensazione d’arretrare in tutta un’altra era glaciale, eppure son cose d’appena l’altroieri. Anzi, ogni celebrazione, ogni ritualità, ogni gesto, non è manco “vissuto”, è solo “fatto”, così, tanto per farlo – magari ad uso e consumo pro-loco e, ormai, c’è di che aver la scarsella ricolma di tutte ‘ste sagre del “turdillo” et similia -, si fa tanto per farlo e tutto finisce lì, ogni anno più liso, ogni anno più “altro” da sé; sì che tutta una storia di popolo è finita per diventare bolso folclore da esporre fra il tanto bric-a-brac di pessimo gusto nel salotto di terragna nonna Speranza sopravvissuta allo “sfasciume pendulo sul mare”, al “profondo Sud” e ad altre pinzillacchere del genere.

È vero, era fatale che tutto ciò accadesse, perché l’uomo ha gambe e piedi fatti apposta per camminare in avanti, ma ha anche una memoria che è tal quale quella dei computer, e a premere il comando sbagliato si può anche cancellare tutto il file, o, addirittura, tutto il programma e… chi ha avuto, ha avuto, ha avuto…! Tanto più oggi che i mutamenti hanno la misura d’un respiro, e il tempo mitico si è banalizzato e ogni nuova abitudine non fa a tempo a diventar tradizione che è già consumata; e se è già raggelante la prospettiva d’un mondo, per dire, senza telefoni fissi e senza posta ordinaria e senza dattilografi, figuriamoci un mondo senza memoria collettiva e, quindi, senza radici (raggelante, beninteso, per chi, almeno ultracinquantenne, sta via-via perdendo i punti di riferimento del suo quotidiano “essere stato”).

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