Giorni di grandi, trionfali abbuffate quelli del ciclo natalizio, almeno del ciclo tradizionale, quello ormai affidato esclusivamente alla memoria, ché per il resto, e per dirla con un abusato luogo comune, oggi tutti i giorni è Natale! Difatti, in nessun’altra occasione si mangia tanto e con tanta varietà di pietanze; in nessun altro periodo si trascorre tanto tempo a tavola. Quasi a voler “fare il pieno” per l’anno che sta per cominciare, o, a rivoltare la frittata, quasi a volersi rifare di un anno intero di pasti in tutti i sensi “al risparmio”; ergo: abbuffate come terapeutici deblocages della psicosi del cibo.
A parte, poi, che le feste natalizie concludono un ciclo e ne aprono un altro, che ci si augura prospero. E siccome è risaputo che la miseria porta altra miseria, mentre l’abbondanza propizia la ricchezza, che razza di buon augurio sarebbe festeggiare le festività natalizie con frugali e frettolosi pasti?! Per cui, quello che per quantità e qualità è, sul piano alimentare, eccezione e abuso in tutto il resto dell’anno, nelle stesse festività diventa regola.
Comunque, il menù più ricco e più vario – anche se non vi compare la carne, ma solo pesce e verdura – è quello per il cenone della Vigilia di Natale, le cui pietanze debbono essere necessariamente nove o tredici, secondo i luoghi, e altrettanti i tipi di frutta, se no si fa il malaugurio alla casa e alla famiglia. E in tale ritualità numerica è facilmente intuibile il sostrato originariamente cabalistico che percorre tutta la cultura popolare calabrese, e che, assegnando natura fortemente simbolica ai numeri, riconosce loro grande capacità di influenzare la “natura delle cose” e il loro accadere nel tempo e nello spazio.
Fra l’altro, e detto en passant, dopo il cenone non bisogna sparecchiare la tavola, sulla quale deve rimanere del cibo per Gesù Bambino che, dopo la mezzanotte, affamato com’è passerà per mangiarlo, lasciando la sua benedizione.
Pernicioso malaugurio è altresì il non preparare le “fritture” canoniche, cioè i vari dolci generalmente a base di farina e uova che vanno prima fritti e, poi, ricoperti di miele di fichi o glassa – chiamate qui in un modo e là in un altro – le fritture sono sotto ogni cielo calabrese dello stesso genere e tutti riconducibili, mutatis mutandis, alle “famiglie” dei “turdilli”, degli “scalilli” e della “ciciarata”. Bisogna prepararne in abbondanza, perché debbono bastare fino all’Epifania; inoltre bisogna farne “complimento” ai “sangiovanni”, ai parenti ed agli amici; offrirne a quanti arrivano in casa per dare gli auguri; mandarne a quei vicini che, essendo in lutto o in estrema indigenza, non hanno potuto friggere di loro (per inciso: la peggior bestemmia che si possa mandare è “che tu non possa accendere il fuoco a Natale!”).
Entrare nel dettaglio delle varie pietanze e delle varie “fritture” è come voler svuotare uno stagno in punta di forchetta: non solo ogni paese ha le sue tradizionali specialità ma in ogni casa c’è un proprio modo di prepararli.
Relativamente meno vago si fa, invece, il discorso sul torrone, dolce anch’esso immancabile sulle tavole natalizie: gli ingredienti usati sono diversi da zona a zona per cui è possibile dire, sempre all’ingrosso, quale sia tipico d’un luogo e quale d’un altro; quello di Soriano (CZ), ad esempio, è fatto di miele di fichi e ghiande; quello di Bagnara (RC) di mandorle, miele d’api e zucchero; quello di Reggio Calabria di zucchero, mandorle bollite, frutta candita e limone ed è, inoltre, detto “torrone gelato” perché, a differenza degli altri, è preparato a freddo, senza mantecare l’impasto sul fuoco. Ed è anche una specie di torrone la “giurgiulena” di Castrovillari o il “cumpiettu” di Serra San Bruno (CZ), che sono un impasto di miele d’api, semi di sesamo e mandorle.
E per lasciare, appunto la bocca al dolce, e, così, tanto per gradire, voilà la ricetta per preparare l’umile ma impareggiabile torrone casalingo.
In una casseruola di rame far sciogliere a fuoco lento lo zucchero, per poi aggiungervi le mandorle precedentemente abbrustolite, e mantecare a lungo. Quindi stendere l’impasto su un ripiano di marmo, lasciarlo raffreddare e tagliarlo a strisce larghe due dita.
Buon Natale!