È stato mons. Domenico Tarcisio Cortese, vescovo della Diocesi di Mileto-Nicotera-Tropea (con lei nella foto), e che nei fatti per quasi trent’anni si è caricato, da solo e in prima persona, il peso enorme e soprattutto scomodo che Natuzza aveva per la Chiesa del tempo, e l’ha accompagnata per tutto questo periodo fino al giorno della sua morte.
“Sono stato vescovo della diocesi di Mileto-Nicotera-Tropea per ben ventotto anni e la mia testimonianza è diretta, avendo conosciuto e seguito Natuzza e le sue vicende nei lunghi anni del mio episcopato. Il mio ricordo – scrive Mons. Cortese nella postfazione fatta al saggio di Luciano Regolo e a lei dedicato – non intende esprimere alcun giudizio di merito sui fenomeni straordinari attribuiti alla mistica di Paravati.
Su questo delicato ambito la competenza esclusiva è della Chiesa che nei tempi, nei modi e nelle forme previsti e prescritti, saprà emettere il suo fondato e decisivo giudizio. Ma quello che posso dire, senza timore di essere smentito da nessuno è che Natuzza, donna di fede, ha saputo obbedire alla Chiesa, anche nei momenti più delicati e difficili della sua vita. Posso dare la mia diretta testimonianza. Alcuni uomini del clero erano pieni di perplessità e di riserve su Natuzza, per le sue visioni e i suoi messaggi, a volte non teneri nemmeno verso il clero. Da qui incomprensioni.
Quando nel 1979 entrai in diocesi, Natuzza venne da me e mi disse: “Eccellenza, se volete che io non riceva gente e non parli con la gente, io vi obbedirò!”. Io le feci presente che non avevo alcuna facoltà, né tantomeno la volontà, di impedire che lei ricevesse e parlasse con la gente, convinto come ero che il suo incontro e la sua parola avrebbero fatto solo del bene. Se ne andò rasserenata”.
Mons. Domenico Tarcisio Cortese ripeté questo concetto per tutto il resto dei giorni di vita che gli restarono: “Nella mia vita di vescovo non ho mai ricevuto una dichiarazione di obbedienza così piena e leale. Per la sua vita di fede e per la sua obbedienza Natuzza ha molti punti in comune con altri eccezionali testimoni del nostro tempo. Potrei citare Padre Pio.
Preferisco parlare di don Primo Mazzolari. Ritenuto un sacerdote di frontiera, troppo avanzato e scomodo, ha subìto vari richiami e interventi di diffida da parte dell’autorità ecclesiastica, sempre accettati con grande spirito di obbedienza. Oggi la sua forte e coraggiosa personalità e testimonianza è massimamente riconosciuta e condivisa. Prima di morire, nel suo testamento, scrive: “Sono dispiaciuto di aver fatto involontariamente soffrire i miei superiori. Non lo sono però di aver sofferto”.
Papa Paolo VI risponde indirettamente a queste affermazioni; quasi per chiedere perdono a don Primo per quello che le autorità ecclesiastiche avevano fatto soffrire all’obbediente sacerdote: “Certo non era sempre possibile condividere le sue posizioni. Camminava avanti con un passo troppo lungo e spesso non gli si poteva tenere dietro. E cosi ha sofferto lui e abbiamo sofferto anche noi”.
Il vecchio vescovo di Mileto, dovunque egli andasse, e gli chiedessero di Natuzza o di cosa pensasse di lei, aveva sempre un aneddoto molto particolare da raccontare, ma che dava perfettamente bene l’idea del grande rapporto di complicità che Natuzza aveva saputo creare con il vescovo della sua diocesi: “Fin da ragazza Natuzza vive e testimonia la sua fede, anche con segni straordinari, che incuriosiscono e inquietano. Donna semplice e umile è Natuzza.
“Ricordo un episodio che evidenzia la semplicità e la genuinità di Natuzza, ma potrei anche dire la sua ingenuità. Da Ortisei fece venire la statua della Madonna, con le sembianze che la stessa Natuzza aveva indicato e richiesto allo scultore. Prima di procedere alla benedizione della statua, per esporla poi alla venerazione dei fedeli, chiesi di poter vedere la statua per una scrupolosa curiosità. Mi recai, di sera, nella casa di Natuzza e mi trovai di fronte una statua della Madonna dal volto giovanile e sorridente, con le mani aperte e tese verso la terra, verso la gente. Fra me e me dissi: “Finalmente una statua dell’Immacolata tesa non verso il cielo, quasi a fuggire la terra, ma tesa verso la terra, quasi a voler abbracciare l’umanità”.
Con apprensione, Natuzza guardava i miei occhi per carpire la mia reazione immediata. Mi chiese timorosa: “Eccellenza, vi piace la mia Madonna?”. “Sì” risposi “mi piace tanto”, ma quasi per scherzo aggiunsi: “Ma non è la mia Madonna”. Turbata e perplessa, Natuzza insiste: “Com’è la vostra Madonna?”. Faccio presente che per un figlio di san Francesco d’Assisi, quale ero io nell’iconografia francescana, la Madonna deve avere sempre il Bambino Gesù tra le braccia. Ma non persi tempo a rassicurare Natuzza. Le dissi che la sua Madonna era come la Madonna di Lourdes e di Fatima, che non hanno il Bambino tra le braccia; anche se la “Bella Signora” tra le mani ha la corona del Santo Rosario.
Natuzza, rasserenata e tranquillizzata, baciandomi la mano, esclama: “Eccellenza, sono felice!”.
Per la sua vita di fede a volte fuori dall’ordinario Natuzza ha dovuto e saputo soffrire, con coraggio, incomprensioni e diffidenze, a volte anche derisioni da parte di qualche ecclesiastico. Rimase invece sempre obbediente alla Chiesa, sostenuta da fede incrollabile, e ha proseguito il suo cammino nel fermo convincimento di dover assolvere una missione, quella cioè di portare agli uomini tutto l’amore possibile”.
Eloquente, conclude il vescovo Cortese nel suo ricordo – testimonianza – la confessione di uno dei figli di Natuzza sulla bara della sua mamma nel giorno dei solenni funerali, in un pomeriggio apocalittico di diluvio e di vento, alla presenza di migliaia e migliaia di fedeli.
Con la voce ferma, anche se rotta dal dolore e dall’emozione, il figlio dice: “Ti ringrazio perché mi hai spiegato sin da bambino che, oltre alla mia famiglia, composta da mamma Natuzza, papà Pasquale e altri quattro fratelli, io avrei avuto tanti fratelli e sorelle, perché bisogna amare il mondo intero”.