Mio padre? Lo ricordo così
“Una vita piena, sofferta, e un grande cuore, anche se quel senso del pudore tutto calabrese gli impediva di essere tenero persino con suo figlio. Ma mi voleva un gran bene, ne sono certo: al punto da pretendere che non facessi lo scrittore perché a farlo realmente, diceva, si soffre, si soffre”.
Ha l’aspetto e il colore di quei contadini-pescatori che scendevano ogni sera di sabato alla praja per varare lampàre nello Jonio, un aspetto asciutto e levigato, e il color delle brocche di Squillace, o dei calanchi prossimi a San Luca. Non glielo dico, per timore di far della retorica; gli dico invece, e penso non gli spiaccia, che nessuno, vedendolo, potrebbe mai smentire la sua origine, e lui sorride, ribatte divertito:
“La cosa strana è che son nato altrove, a Bologna per la precisione; ma con il nome che mi trovo addosso, non trovo strano che tutti, lei compreso, mi ritengano un vero calabrese”.
Siamo in un ufficio RAI di Via del Babuino, a Roma: scrivania, telefono, e da una parte un mobiletto anonimo con sopra una radio vecchio stampo su cui troneggia uno scarpone che par sfilato da un piede di Charlot. In questa stanza lavora da alcuni anni Massimo Alvaro, figlio di Corrado, lo scrittore che tutti conosciamo, di cui ricorre il ventennale della morte. E allora eccoci qui con lui, con questo figlio, a parlare del padre celebre e di ciò che per lui ha rappresentato… Cominciamo?
“Ecco, sì, diciamo subito che avevo per lui un rispetto enorme. È stato un esempio come uomo, come regola di vita: un esempio di onestà e rettitudine, moralità. Era anche un grande scrittore, riconosciuto come tale, e avrebbe potuto perciò trarre abbondante acqua al suo mulino, avere una vita diversa e dare anche a me una vita diversa. Invece non è mai riuscito a trarre grande profitto dal suo nome: almeno dal punto di vista economico.
Quando è morto, in casa non c’era una lira. Se ne era andato tutto per la malattia; morto di tumore. E insomma questo era mio padre: un uomo schivo, severo con se stesso e con gli altri. Per quanto ricordi, non ci sono mai stati momenti di grande effusione o quanto meno di tenerezza, fra me e lui.
Forse era una forma di timidezza, un esagerato senso di pudore che ho poi riscontrato altri calabresi, fatto sta che era incapace di slanci d’affetto. Non ricordo mai di aver visto mio padre e mia madre andare insieme a braccetto, e non certo per colpa di mia madre, che da buona romagnola era invece tutta slanci. Lui, lui. Io lo adoravo, sia come padre che come uomo e come scrittore. Lo ponevo sugli al tari, per così dire, e lui se ne rendeva perfettamente conto, e credo soffrisse a non potere esternare nei miei confronti ciò che realmente sentiva quel senso di pudore tutto ca labrese, casa non c’era una lira. Se ne era andato tutto per la malattia; morto di tumore. E insomma questo era, voglio dire, che gli impediva magari di gettarmi le braccia al collo e baciarmi; no, questo non sarebbe mai accaduto, e allora diceva con un magro sorriso: Povero Massimo, mi deve digerire tutti i giorni….
Il rifiuto di qualsiasi compromesso
“Certo non mi sarei mai sognato di contestarlo. Certi atteggiamenti critici nei suoi riguardi li ho avuti soltanto do po la sua morte, e mi son detto, ecco, che in molte cose aveva torto: quel suo essere tutto d’un pezzo, la sua intransigenza verso se stesso e gli altri: a cosa approdava tutto questo? Con il suo nome e il suo prestigio, lo ripeto, avrebbe potuto non avere preoccupazioni di alcun genere dal punto di vista economico, avrebbe potuto per così dire vivere di rendita, e invece fino all’ultimo ha dovuto stare al chiodo, faticare, lavorare sodo, scrivere articoli per i giornali per tirare avanti la famiglia. E questo credo sia stato uno dei suoi più grandi crucci: non essersi potuto dedicare interamente, esclusivamente al suo mestiere di scrittore.
Se avesse potuto lasciare il giornalismo, che lo impegnava enormemente, avrebbe scritto chissà quali e quante cose importanti; invece doveva scrivere i suoi articoli, che era no poi quelli che, in definitiva, gli permettevano di sbarcare il lunario. Una gran fatica. Certo, se avesse voluto, avrebbe potuto anche piantarla con il giornalismo; ma non era tipo da arrivare a compromessi. In epoca fascista a casa nostra veniva spesso Bottai. Corrado, gli diceva, prendi la tessera. Tl faccio Accademico. Essere accademico a quei tempi significava aver risolto ogni problema. Ma lui non voleva saperne. Preferiva arrabattarsi, sudare le camicie sulla macchina da scrivere.
“Era un uomo preciso, metodico — l’impiegato di se stesso: avrebbe potuto timbrare il cartellino. Si alzava la mattina alle sette, prendeva un cap puccino e si metteva alla scrivania, davanti alla grande finestra da cui si vedeva Piazza di Spagna. D’inverno, non essendoci in casa riscaldamento, si avvolgeva le gambe in un plaid di lana, e cominciava a picchiare… Lavorava ininterrottamente sino alle 13, si pranzava e poi lui andava a fare il pisolino.
Quando si alzava nel tardo pomeriggio, usciva: da solo, o con Pannunzio e qualche altro amico, andava avanti e indietro per il Babuino, da Piazza di Spagna a Piazza del Popolo, chiacchierando, discutendo. Alle 21 tutti a tavola, e su questo era intransigente: se ero con amici, io dovevo piantarli lì e correre a casa. Non tollerava il minimo ritardo, cominciava a stare in apprensione. In questo credo che fosse molto calabrese, aveva conservato intatte tutte quelle abitudini patriarcali… Ma in definitiva era molto calabrese in tutto”.
La Calabria se la portava dentro
“La Calabria se la portava dentro, e quando gli riusciva di farlo correva a San Luca. In fondo è rimasto un immigrato: si era inurbato, ma non integrato. Era felice quando in casa venivano dei calabresi.
Era un via-vai di calabresi in casa nostra: gente, povera gente che il più delle volte aveva dei problemi da risolvere, e veniva da mio padre per farsi raccomandare. Arri vavano, ricordo, con scatole e panieri -— il “presente” -— come Renzo da Azzeccagarbugli. Mio padre li accoglieva tutti alla stessa maniera, quasi con entusiasmo, e si metteva a parlare con loro di San Luca, e dei vivi e dei morti. Ci si trovava bene con questa gente, e si vedeva. Una volta mi raccontò di una donna che gli aveva chiesto se davvero stesse per scoppiare la guerra con l’Abissinia, e mio padre le disse che sì, e lei disse: Peccato che il figlio mio è morto, sennò poteva andare anche lui a guadagnarsi qualcosa. Agghiacciante. Ma sembrava davvero che il destino di gran parte dei calabresi non potesse essere altro che questo: andare in guerra, emigrare… Mio padre ce l’aveva col ceto medio, il ceto medio calabrese, che giudicava apatico, pettegolo, fuori della storia.
“Questo era mio padre: un riccio apparentemente, un uomo chiuso e impenetrabile; ma se si riusciva a forare la corazza, allora si otteneva tutto da lui. In casa nostra non entravano molte persone – c’era per così dire un gran rispetto del focolare; ma quelle poche erano davvero di casa, trattate con molto affetto e familiarità. Ezio Taddei, per esempio: arrivava e si metteva con noi a tavola e mio padre era felice di poter discutere con lui di arte, di politica o delle cose di tutti i giorni, “Spesso venivano a trovarlo giovani scrittori, ragazzi che cominciavano allora, e lui era prodigo di suggerimenti, di consigli. Aveva grande curiosità verso i giovani, e si augurava che per essi fosse tutto più facile.
Per lui, invece, tutto era, o almeno sembrava, molto faticoso: il rapporto umano, come la stesura di un articolo. Con mia madre, per esempio – anche con lei sembrava molto distaccato, e lei, da buona roma gnola, saliva spesso di giri, era molto critica, verso di lui. Ma credo si volessero un gran bene.
La casa di Vallerano ultimo rifugio
Il declino di mia madre cominciò dopo la morte di mio padre. Andò a chiudersi nella casetta che avevamo comprato a Vallerano, nel Viterbese, e non volle più tornare nella casa, di Piazza di Spagna, dove tutto le ricordava l’uomo che non c’era più.
“La casa di Vallerano fu uno degli amori di mio padre. Come, prima, il Monte Argentario. A Santa Liberata, sull’Argentario, avevamo preso in fitto una casa — 500 lire all’anno, — e mio padre ci andava spessissimo. Finchè non scoprì il Viterbese, la casa di ValIerano: la comprò, la fece restaurare. Si chiudeva dentro, lavorava, faceva grandi passeggiate nel bosco. Io andavo qualche volta a trovarlo e lui era felice di avermi con lui. Solo che alla lunga mi annoiavo: c’era un silenzio enorme, dentro e fuori, non si sentiva altro che la macchina da scrivere di mio padre. Per lui ValIerano era l’ideale: meditava di ritirarsi lì prima o poi e di fare sporadicamente qualche puntata a Roma giusto per rivedere qualche amico. Ora anche la casa di Vallerano è venduta.
“Il sogno segreto di mio padre era quello di fare l’agricoltore. Quando andava a Vallerano passava ore con il contadino che ci lavorava il pezzetto di terra a parlare di semine concimi colture… Era il grande amore per la terra. Parlava sempre, ricordo, di un fondo che il nonno aveva in Calabria, Vorea, un pezzo di terra dove c’erano due-tre alberi di more di gelso e certi piccoli carciofi spinosi. Di quelle more non ne ho mangiate mai più – more bianche, dolcissime: esistono ancora?
A suo padre dava del ”voi”
“Aveva un’adorazione per il padre. Era un ometto buffo il nonno: in Calabria, a San Lu ca, lo chiamavano lu cavaleri: faceva l’insegnante, il maestro, ma credo non fosse neanche abilitato a farlo. Riuniva dei ragazzi all’aperto e faceva lezione: raccoglieva un fiore e spiegava com’era fatto, ac chiappava un insetto e faceva altrettanto… e poi parlava del mondo lontano in cui lui non era mai stato: l’Affrica, l’America Grande, l’America Piccola… Di fronte a mio non no, mio padre stava in uno stato di vera soggezione come un subalterno davanti al superiore. E gli dava del voi: Pa dre, come state? Padre, volete qualcosa? Una forma di dolce sudditanza. Ricordo quando il nonno veniva a Roma: usciva di casa di prima mattina e re stava fuori tutta la mattinata, rientrando puntuale per l’ora del pranzo. Mio padre gli chiedeva: Dove siete stato, padre? E lui elencava i posti dov’era stato: il Pincio, il Gianicolo, San Pietro, il Colosseo, San Giovanni… Sembrava avesse fatto il tour de Rome, al completo. E mio padre: Chissà quanti mezzi vi sarà toccato prendere. Vi siete regolato bene? Mio nonno si toglieva il cappello, come a far respirare il cranio: Nessun mezzo, rispondeva. L ‘ho fatta a piedi. Roba da barzellette.
“Se mio padre aveva quella gran venerazione per lui, lui era orgogliosissimo del figlio. Entrambi facevano di tutto per dimostrare agli Stranges la famiglia rivale di San Luca che gli Alvaro valevano qualcosa. Mio padre si sobbarcò a spese enormi per fare studiare i fratelli, e lui, con gran sacrificio, diventò quel che diventò.
Il piacere di scrivere ma che fatica!
Scrivere è più bello che fare l’amore, diceva. In realtà, scrivere gli costava il più delle volte un’enorme fatica: di alcuni romanzi — Belmoro, per esempio, di 600 pagine, — trovammo quattro rifacimenti. Tutto doveva funzionare come voleva lui, altrimenti non era soddisfatto. Anche gli articoli, per i quali in genere non si va tanto per il sottile, a lui costavano una fatica enorme: li scriveva, li riscriveva, tagliava, limava – ci sudava sopra finché, almeno secondo il suo punto di vista, non erano perfetti.
“Le sue letture preferite erano i classici latini e greci, che leggeva nell’originale. Conosceva benissimo sia il latino che il greco, e questo gli servì a qualcosa. Quando dopo l’8 settembre scappò e si rifugiò a Chieti facendosi chiamare “professor Giorgi” visse facendo ripetizioni di latino e greco a dei ragazzi… Fu un periodo duro, quello. Le sue idee politiche lo avevano messo spesso nei guai: nel ’24, quando faceva il critico teatrale per Il Mondo, fu bastonato a sangue. Ma lui non volle mai dire da chi. Non nutriva odio per nessuno, semmai disprezzo. Diceva pane al pane, vino al vino, senza peli sulla lingua per intenderci; e questo gli costava spesso antipatie, inimicizie palesi o nascoste. “Era molto critico anche nei riguardi delle sinistre, che pure, nel dopoguerra, aveva apertamente appoggiato. E non era certo tenero con il Vaticano. Era sicuramente anticlericale, però credeva nel trascendente: era religioso a modo suo.
“Lo vidi arrabbiato una sola volta, nel ’40, quando gli arrivò la cartolina del richiamo alle armi. Era tenente-colonnello di fanteria, e ricordo che andava su e giù per la stanza, nervosamente, agitando gli stivali che teneva in mano, urIando: Ecco, quando è il momento siamo sempre buoni!
Carne da macello… La guerra per lui era una cosa insensata: la prima, quella quindici-di ciotto, gli aveva lasciato i segni nelle braccia – ferite gravi.
Una vita sofferta e un grande cuore
“E così, questo è un riassunto di mio padre come lo ricordo.
Una vita piena, sofferta, e un grande cuore, anche se quel senso di pudore tutto calabrese gli impediva di essere tenero persino con suo figlio. Ma mi voleva un gran bene, ne sono certo: al punto da pretendere che non facessi lo scritto re, perché a farlo realmente, diceva, si soffre, si soffre. Per il resto, nessuna limitazione: avevo tutte le libertà possibili e immaginabili.
“Gli ultimi tempi? Be’, gli ultimi tempi furono i più tristi. Lo ricordo bene mio padre: era come uno sbandato, rattristato da quello che succedeva, angosciato dall’idea che non ci fossero più rimedi possibili. La storia di Belmoro – ha letto quella storia? Magnitudo, Energheiton, Lipona, l’Orga- nizzazione Mondiale Malvagi… Non è storia d’oggi? Tutto è accaduto, tanto per usare il titolo di un altro suo libro, e quasi mi conforta l’idea ch’egli riposi ormai in pace. Da vivo, dove avrebbe potuto mai trovare conforto al giorno d’oggi? Sull’Argentario? No, l’hanno rovinato: chiasso, speculazione edilizia e chi più ne ha più ne metta. Quanto a Vallerano, il silenzio si è rotto anche lì: tutto mondo è paese.
Nella foto di apertura, Alvaro nel ritratto di Renato Guttuso.