Tante, difficili, misteriose sono le strade che valicano il Pollino.
Noi ve le raccontiamo tutte, e una in più quella della memoria di un “devoto seguace” del gigante di boschi, di pietra, di lupi.
Giulio Palange
Sembra che sia lì apposta per «separare»: da una parte le Calabrie (le tante delle piccole patrie), dall’altra tutto il resto.
Aspro, incombente, fa blocco unico dalla costa tirrenica a quella ionica, e pare, appunto, l’emblematica sottolineatura d’un destino collettivo che si è consumato in se stesso perché costretto in uno spazio vitale comunque e sempre delimitato da barriere insormontabili. Barriere reali e barriere nelle coscienze.
L’imperialismo dei romani fu costretto a traccheggiare davanti a questo scontroso gigante e poi approfittò dell’unico varco percorribile, Campotenese, per fargli passar la via Popilia fra le ginocchia; i bizantini, invece, più sottili e con lo sguardo naturalmente rivolto ad oriente, sfruttarono un’approssimativa fettuccia fra i suoi primi contrafforti e il mar Ionio per la loro «via della seta». E per secoli queste due strade hanno rappresentato gli unici cordoni ombelicali, via terra, con «tutto il resto». Poi, gli italioti ne hanno frantumato i fianchi con l’«esplosivo e ne hanno rinacciato le voraggini con aerei viadotti per ridefinire l’unità d’Italia almeno sul piano autostradale. Ma, ciò nonostante, molte barriere non sono ancora del tutto crollate; né il gigante, per lo meno da una certa altitudine in su, è diventato più disponibile alle confidenze.
Una volta nemmeno briganti, anacoreti e pastori s’avventuravano a percorrerlo sempre da una certa altitudine in su: e questo già dice tutto. Lo praticavano, però soltanto d’estate, i boscaioli, che poi facevano rotolar la legna lungo i letti quasi a perpendicolo dei torrenti in secca; e i più balenchi s’arrischiavano a venir giù in groppa ai tronchi, e c’era sempre qualcuno che ci rimetteva qualcosa, fosse pure un bicchiere di vino per la scommessa persa. E i bracconieri incalliti che, per trovarsi di primo mattino alle «poste», dormivano a cielo aperto, e così avevano sempre le stelle a portata di mano. Come le avevano pure i cacciatori, che erano costretti a bivaccare nelle grotte perché per salire fino ad una buona «riposta» se ne andava quasi una mezza giornata; e ne valeva la pena: le seguite dei cani a muta riempivano l’anima ed erano l’eco d’un rito antico quanto quel mondo, una sfida fatta solo di perizia e d’istinto; e di trepidazione: i lupi del Pollino non ci pensavano su due volte ad attaccare quando avevano la pancia gonfia solo d’aria come una zampogna.
Mi ricordo di Perla, una segugia testarda che non mollò la lepre nemmeno quando si trattò d’allontanarsi di molto dalla «riposta», e non tornò più. Mi ricordo anche d’un lupo di settantatré chili, che, una volta scuoiato, appendemmo ad un traliccio dell’alta tensione nella Pietrosa, appena più sopra di Castrovillari: dopo nemmeno due ore era sparito, conteso da un branco famelico che, così, s’assicurò un altro esiguo margine di sopravvivenza. E mi ricordo, infine, dei lupi del Pollino com’erano nelle storie raccontatemi dai vecchi: avevano la tana proprio in cima al Dolcedorme e facevano la guardia ad un tesoro che avrebbe conquistato solo chi li avesse uccisi trapassando il loro cuore con un pugnale di pietra. Ma questo è un Pollino che non ha nulla da spartire con quello che ora è, almeno sulla carta, Parco Nazionale; tutt’al più appartiene al paco delle private rimembranze.
Orsomarso. Abitato. Ph F. BevilacquaPer chi viveva nei paesi del versante calabro e di quello lucano, l’unico, e comunque provvisorio antidoto contro l’ancestrale paura per il gigante, era la fede. D’obbligo in giugno festeggiare «a Madonna i Puddinu», custodita in una spoglia cappella a circa duemila metri. Arrivarvi era un purificatorio pellegrinaggio, un’arrancata spezzagambe che, almeno per chi l’affrontava, non poteva non procurare indulgenza e protezione. Solcavano la montagna in lunghe file che battevano sentieri diversi a seconda della provenienza; e sembravano poveri dannati che a forza di unghie e ginocchia cercavano di conquistarsi un posto in cima al Paradiso. E forse lo erano veramente. Poi giunti sul sagrato la fatica svaporava nel tripudio collettivo: per una notte e un giorno intero vivevano tutti gomito a gomito, mangiavano insieme i capretti trascinati di forza fin lassù, dormivano sotto improvvisati ripari di frasche, intonavano inni gareggiando a chi cantava più forte, si contendevano all’incanto il privilegio di portare la Madonna fuori dalla cappella. Ma anche questo è Pollino.
Però, per fortuna, c’è anche quello solido, scontroso e immenso che è tutto ed il contrario di tutto, perché si smentisce ad ogni successivo colpo d’occhio: ha un’anima di nuda roccia e di bosco fitto, di pascolo vergine e di arida pietraia, di nevaio eterno e di intrigo cespuglioso, di orrido inquietante e di verde pianoro, di bruma, di vento e di cielo che ha orizzonte d’infinito. Non ha pareti che possano attrarre chi sfida la verticalità, ma nemmeno sentieri buoni per il lento pede del gitante domenicale. Se lo prendi sottogamba ti metti a brutti rischi. Anni fa una coppia di alemanni in vena di escursioni, s’avventurò a salirvi zaino in spalla; li aspettarono in albergo per più giorni e poi, dopo tanto, trovarono i loro corpi rannicchiati sotto un costone; avevano perso la strada e, a giudicar da come si stringevano la testa fra le mani, erano morti più per angoscia che per fame o freddo.
Che c’entra anche questo col Parco Nazionale degli ultimi pini Ioricati, delle ultime aquile reali, degli ultimi lupi appenninici, degli ultimi et cetera et cetera?
Se vi portate dentro un luogo che, per come lo avete scoperto e vissuto, ha finito per diventare parte di voi stessi — carne, memoria, sensi, immaginazione — provate, se vi riesce, a parlarne con l’enciclopedia delle scienze naturali in mano!