Luigi Parpagliolo*
Era Donna Canfora gentildonna ricchissima, adorna delle più gentili virtù e di suprema bellezza. Amica fortuna l’aveva colma di beni: le sue vigne versavano ogni anno vino a flutti nelle ampie bigonce; su’ suoi campi sterminati biondeggiava sempre abbondante la messe; e lana e latte e burro le mandavano i prati della montagna, che nutriva per lei numerose mandrie di buoi e di capre.
Di tanta ricchezza Donna Canfora, tra le cui virtù fioriva grande la carità, teneva per sé il necessario e dispensava ai poveri il superfluo. Sicché dalla sua casa, benedetta da Dio, salivano le benedizioni dei miseri sfamati, delle fanciulle povere strappate da lei al disonore, dagl’infermi, ai quali mandava il vino più generoso delle sue cantine e la tela più fine delle sue casse. La fama di tanta carità volò per quella contrada e per altre ancora, e con essa la fama della bellezza di Donna Canfora. Giacché, alta, dal profilo purissimo, dalle forme flessuose, circonfusa da un’intensa vita spirituale, piena di grazia e dignità, pareva ella uscita dallo scalpello di Prassitele.
Si estese, dunque, così la fama, che schiere di poveri pellegrini picchiavano alla sua porta, mentre invano lanciavano su di lei frecce di amore legioni di cavalieri da lontani paesi a bella posta venuti. Non già che Donna Canfora avesse cuore deserto di affetti, ché anzi era stata moglie amorosa, e la vita del marito aveva resa felice e con le grazie del copro e più con la soavità dell’anima. Rimasta vedova, ella, giovanissima ancora, consacrò la fiorente bellezza alla memoria dell’infelice consorte. E a’ molti, i quali invaghiti di lei o delle sue ricchezze, la chiedevano in isposa, ella rispondeva, ragionando essere uno il marito dato alla donna da Dio, e a quell’uomo doversi ogni donna mantenere unita in ispirito; giacché, se i corpi muoiono e si disuniscono, non così gli spiriti, che sono immortali, e l’uno quindi non si distacca mai dall’altro.
Sparsasi dovunque la nuova di così bella fedeltà, crebbe in tutti gli animi l’ammirazione già grande per donna tanto virtuosa; e dalle madri Donna Canfora era additata per esempio alle figliuole e dai mariti alle mogli.
Un giorno la cameriera di Donna Canfora rincasò con una bella notizia. Era giunta dall’oriente una nave carica di seriche stoffe, di grosse gemme, di piume candide come la spuma del mare, di pelli, di tappeti rarissimi, di maioliche stupendamente dipinte. Tutti, patrizi e plebei correvan giù alla marina, per ammirare tanta dovizia di cose belle, esposte sulla corsìa della nave, alle murate, agli alberi, a prora, a poppa, dovunque, fra mille vivi colori. «Son meraviglie, – diceva la cameriera a Donna Cànfora, la quale aveva abbandonato l’arcolaio per ascoltarla, – meraviglie che si vedono una volta sola nella vita. Andiamo, signora; troverete laggiù le vostre amiche, ché tutte sono accorse. Su, voglio vestirvi subito subito, venite…».
Ma Donna Canfora era assai triste quel giorno; aveva brutti presentimenti. «Stamane, – disse – l’arcolaio cigolava troppo. Che ne dici? Non è un avviso del Signore?»
«Ma che dite?? L’arcolaio è unto da pochi giorni. È mai possibile che cigoli?
E poi che avviso! Di che?».
«Non so, – riprese a dire Donna Canfora – mi batte il cuore; e più volte mi è parso di vedere qui, dinanzi a me, lui, il povero mio marito. Che sarà mai?
Certo non bene… Io sento… come se dovessi morire».
Prima di uscire Donna Canfora volle visitare tutta la casa; poi pregò inginocchiata la Madonna; sull’uscio si rivolse per dare alla pace, che abbandonava, un ultimo sguardo – e finalmente si avviò sospirando. Sulla riva del mare, infatti, gran folla. La quale, appena Donna Canfora comparve, si divise in due ali, per farvela passare in mezzo come un’amata regina. Il capitano della nave le andò incontro con viso sorridente, e le disse: «La fama della vostra virtù, o madonna, giunse fino ai lidi più lontani dell’Arabia e della Persia, e la vostra visita, da noi aspettata, c’è premio, del quale non sappiamo come ringraziarvi». Donna Canfora, cui il cuore palpitava sempre più forte, ringraziò e si lasciò guidare fin sulla tolda.
Le magnificenze narrate dalla cameriera, rimasta sulla riva tra la folla, eran vere; ed ella andava ammirandole ad una ad una, accompagnata dal gentile capitano.
A un tratto i sostegni si rompono, e la nave scivola sul mare: i remi son pronti, i rematori al loro posto, e la nave fila diritta come una freccia. Dalla riva s’alzano grida furibonde, imprecazioni disperate, e cento cento giovani gagliardi si slanciano nelle onde, per raggiungere a nuoto i finti mercanti, gli esecrati corsari… La patria si allontanava, circonfusa in un pulviscolo dorato, e il tumulto della spiaggia più non si udiva. Donna Canfora pareva serena: un’aria di dignitosa rassegnazione era sparsa sul suo viso pallido.
Chiese in grazia di esser lasciata libera un istante, per dare l’ultimo saluto alla terra natale; e diritta sulla poppa, gli occhi profondi e lucenti, guardava le curve delle montagne baciate dagli ultimi raggi del sole presso al tramonto.
La brezza vespertina folleggiava con la candida veste, coi riccioli neri cadenti sulla fronte severa… Donna Canfora guardò, guardò a lungo. Poi, sollevati gli occhi al cielo, come per chiedere perdono al Signore, si lanciò fra le onde. Il capitano della nave non ebbe il tempo di gridare e di accorrere, che già ella, abbracciata dal nuovo sposo, il mare, scomparve senza un lamento, senza un singulto.
*Questa rarissima edizione della leggenda di Donna Canfora è di Luigi Parpagliolo che la scrisse nell’ottobre 1908 in occasione delle nozze tra Maria Aiossa Natoli e Luigi Pignatelli di Monteroduni.
Fu stampata in 25 esemplari di cui una ritrovata recentemente da Francesco Lovecchio.