Domenico Zappone*
Fino a pochi anni fa, la caccia (e non la pesca) al pescespada era emozionantissima, trattandosi di un vero duello tra rivali cavallereschi che combattevano ad armi pari; oggi le cose sono cambiate, non c’è più la lealtà, e nemmeno, di conseguenza, la poesia.
A metà aprile, il pescespada s’affaccia in quel tratto di mare che va dallo Stretto di Messina alla montagna di Palmi. Proveniente dall’Africa del nord, in una notte è davanti alle coste settentrionali siciliane, donde punta sullo Stretto per celebrarvi le nozze. Pur sfiorando a volte i due quintali di peso, ha linee eleganti, forma affusolata, pelle bruna sul dorso e grigia sul ventre, e reca — naturalmente! — ben piantato in testa un acuminato, lunghissimo spadone con cui gioca, si difende o attacca, ma allora è pericolosissimo e persino il pescecane lo teme. Oltre ogni dire agile, resistente, veloce, intelligente, è soprattutto un aristocratico che si nutre di seppioline, gamberi, aragoste, ostriche, qualche merluzzetto, qualche piccola aguglia, ma essenzialmente di tanto plancton, una specie di frullato vitaminico di piccoli animali e vegetali sospesi a mezz’acqua.
Sulle montagne calabresi che cadono a picco, c’erano ad attenderlo uomini dall’occhio infallibile, che, dopo averlo avvistato, lo segnalavano con terribili urli ai pescatori dell’«ontre», una barchetta dipinta di nero fatta apposta per tale caccia. Costoro, dunque pestando sui remi da scoppiare e nel più assoluto silenzio, gli andavano addosso, mentre lui, da quel pazzerellone che è sempre stato, ruzzava o caprioleggiava facendo l’acrobata, tanto per darsi arie. Così non s’accorgeva del fiocinatore che, inchiodato a prua con l’arpione in mano, a una distanza di otto-dieci metri, lo infilzava, centrandolo al millimetro, e tutto finiva in una scia di sangue. Erano momenti drammatici, sia quando il pesce tentava la salvezza inabissandosi e sperando di liberarsi dal ferro legato a una gomena che lo straziava, e sia quando il fiocinatore falliva il bersaglio.
Oggi la caccia al pescespada è diversa. Scompare la barchetta a remi, si impiegano grosse barche a motore che hanno un’antenna-timone altissima su cui sta un avvisatore, e s’allungano a prua in una passerella sospesa lunga anche dodici e più metri, dalla quale il pesce è infilzato come un sacco di patate. Tuttavia, c’è sempre un certo brivido, né è da dire che la carne di questo spadaccino marino sia meno buona preparata in una delle cento e più ricette in uso, ivi inclusa quella che Ulisse lasciò, quando, sfuggito alle sei gole di Scilla, si cimentò col pesce e ne arrostì le rosee trance sui legnetti impregnati di odor di mare e sopra ci bevve il buon vino locale, che sa di scoglio e di bosco.
*scrittore e giornalista
Reportage di G. Giampà