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Repaci, l’impeto di una vita

Leonida Repaci, Busto bronzeo di Alessandro Monteleone, Palmi, Municipio

Alle volte un nome può significare una predestinazione; la premonizione di ciò che sarà un’intera esistenza: nomen omen. Così per Leonida Repaci: un uomo, disse lo scrittore Antonio Altomonte nell’orazione funebre per Leonida, “sempre in prima fila, pronto a spendersi interamente dietro le proprie idee e i propri sentimenti”.

Meglio ancora “la sua furia di essere vivo”, secondo la lapidaria e fulminante annotazione di Ungaretti. E ancora Altomonte: “Répaci era quasi costantemente costretto a correre dietro al suo temperamento immaginativo passionale: quella stessa passione che è poi la vera levatrice delle sue storie. Non per nulla quando esordisce come narratore, a 25 anni, ha alle spalle una vita già ricca di avvenimenti: emigrazione, guerra, lotte politiche e sociali, che s’intrecciano puntualmente con le sue invenzioni di scrittore”.

“La realtà – aveva detto una volta Repaci – è stata la sola maestra della mia vita di scrittore”, ma aggiungerà pure: “Sono convinto che se non fossi nato in Calabria forse non sarei diventato scrittore”.

Leonida Repaci era nato a Palmi (RC) il 5 aprile del 1898. Dieci anni più tardi, nel 1908, quando la città è distrutta da un terribile terremoto, il piccolo Leonida viene mandato a Torino dal fratello, Francesco, avvocato. Compiuti gli studi superiori, s’iscrive all’Università, alla facoltà di Giurisprudenza, ma allo scoppio della prima guerra mondiale, è costretto ad  interrompere gli studi e ad andare al fronte. Ferito a Malga Pez torna a Palmi in congedo dove assiste impotente alla morte di tre, dei suoi nove fratelli, a causa dell’epidemia di “spagnola”.

Ritorna a Torino – è il 1919 – per concludere gli studi e avviarsi così all’avvocatura. Nello stesso tempo è molto impegnato sul fronte politico. Durante l’occupazione delle  fabbriche è in prima linea con i socialisti e Gramsci lo chiamerà a collaborare ad Ordine nuovo.

Dopo la marcia su Roma, lascia Torino per Milano. Dal 1924 è il critico teatrale e musicale de l’Unità. Come avvocato assume  la difesa di uno degli imputati per l’attentato al teatro Diana, scelta che lo pone esplicitamente contro il regime. Nel ’23, pubblicato con successo L’ultimo cireneo, il suo primo romanzo, medita di abbandonare la professione forense per dedicarsi interamente alla letteratura.

Nell’agosto del ’25 l’episodio che lo segnerà a lungo. Répaci è a Palmi e durante la festa della Varia, a seguito di contrasti tra fascisti e oppositori, sfociati in una sparatoria in piazza, resta ferito a morte un gerarca locale. Lo scrittore, assieme ad altri compagni, è arrestato e se pur in seguito assolto (ma col sospetto della favorevole mediazione di alte sfere del regime), diffidenze e sospetti veleranno a lungo il rapporto con il Partito Comunista e con la città natale.

Nel 1929 l’incontro con Albertina, la  futura moglie, e sempre nello stesso anno Répaci fonda il Premio Viareggio, assieme a  Carlo Salsa e Alberto Colantuoni. Dal 1925 ha iniziato la Storia dei Rupe, che nel ‘33 gli farà vincere il Premio Bagutta e, tra varie versioni, lo accompagnerà fino agli anni Settanta. Nel frattempo collabora attivamente con numerosi giornali viaggiando per il mondo come inviato.

Conclusasi la tragica parentesi del secondo conflitto mondiale, Répaci torna agli interessi di sempre, con rinnovato slancio. A Roma fonda con Renato Angiolillo Il Tempo, fonda e dirige L’Epoca. Nel ‘46 torna a presiedere il Premio Viareggio riprendendo, con impetuosa generosità, quel ruolo d’organizzatore culturale che gli era così connaturale; un ruolo spesso di personale sovraesposizione che ha finito per mettere in ombra lo scrittore.

Nel 1956 vince il Premio Crotone con Un riccone torna alla terra e due anni dopo il Premio Villa San Giovanni con la Storia dei fratelli Rupe, l’opera più impegnativa e più amata, tanto da far dire ad Altomonte che in realtà tutte le precedenti prove – romanzi, racconti, drammi, saggi – possono considerarsi studi preparatori. La storia dei Rupe è anche storia familiare, ma è soprattutto espressione compiuta del meridionalismo dello scrittore.

Répaci si spegne a Viareggio il 19 luglio 1985. Avrebbe voluto essere sepolto nella roccia che sovrasta la sua casa della Pietrosa, il suo “buen retiro” affacciato sul mare d’Ulisse.

 

 

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