Una storia che comincia da lontano, nel tempo e nei luoghi, e vede protagonisti regine, vescovi, umili frati…Come è giunta a Petilia quella preziosa reliquia?
Masino Medaglia
Molti secoli fa, intorno all’anno 1000, sulle colline a ovest di Policastro, l’attuale Petilia Policastro, ai piedi della Sila Piccola, su un crinale selvaggio e magico, luogo ideale per nutrire lo spirito di profondi momenti di preghiera, alcuni anacoreti basiliani diedero vita ad un piccolo e umile cenobio. Più tardi, nel 1431, nello stesso luogo si trasferirono i frati Francescani. La severa vita monastica e il duro lavoro nei campi dei religiosi che si avvicendarono, fecero di quel luogo un’oasi contemplativa d’impareggiabile misticismo.
Un dotto giovane di nobile famiglia della città di Policastro, tale Dionisio Sacco, attratto dalla vita di quei frati decise di lasciare agi e ricchezze familiari e si unì a loro prendendo il saio. Le doti intellettuali e umane del giovane non tardarono ad affermarsi. Così, divenuto teologo, oltre che stimato predicatore, padre Dionisio Sacco, fu convocato dai superiori che lo informarono della decisione di mandarlo in Francia per completare gli studi di teologia.
Oltralpe, padre Sacco si guadagnò, negli anni, innumerevoli attestati di merito, fino a essere nominato Vescovo di Reims. In particolare la regina di Francia, Giovanna di Valois, moglie di Luigi XII, nella sua travagliata vita ricevette da p. Dionisio, nel frattempo diventato suo confessore, conforto e serenità al punto da offrirgli in dono, in segno di riconoscenza, una spina tolta dalla corona di Cristo, custodita a Parigi. È il 1498. Per oltre vent’anni p. Dionisio terrà custodita nel petto la sacra reliquia con l’ardente desiderio di poterla fare arrivare un giorno in quella chiesetta sperduta sulle colline della sua Policastro dove aveva preso i voti.
Capitò che per volere dei sovrani francesi dovette recarsi a Roma, in Vaticano. Ne approfittò per predisporre il ritorno a Policastro e così far dono alla sua comunità della inestimabile reliquia. Ma padre Sacco non arriverà mai a Policastro. A Bologna, un’incontenibile febbre ne causò la morte. Ebbe però il tempo di ricevere la visita di un suo nipote, anch’esso religioso, padre Ludovico Albo. A lui affidò la sacra reliquia contenuta in un cannello d’oro con questa raccomandazione: “È mio ardente desiderio che questa inestimabile Sacra Spina, che trafisse il capo di nostro Signore Gesù Cristo, dono della Regina di Francia, sia custodita e venerata fra le care mura del convento di S. Maria delle Grazie, dove indossai il saio”.
Padre Ludovico Albo, con impetuosa volontà attraversò a cavallo gli Appennini, giungendo sulle colline di Policastro. In quel luogo una prodigiosa circostanza fece ostinatamente arrestare il cavallo su cui montava. Stremato da tanti giorni di viaggio, capì di essere testimone di un prodigio che gli indicava di aver raggiunto la meta, ovvero la sospirata chiesetta di S. Maria delle Grazie dove, infine, nel giubilo dei frati policastresi, consegnò, secondo il volere dello zio morente, la sacra Spina nelle mani del padre guardiano, frate Nicola Mauro.
La notizia dell’arrivo della sacra Spina si propagò con grande esultanza in tutto il territorio. Negli anni successivi, nel nome della Sacra Spina si verificarono numerosi miracoli, sicché le genti di ogni parte della Calabria e oltre, percorrevano grandi distanze per portarsi davanti a quella miracolosa reliquia.
Crescente e inarrestabile la devozione popolare ma il culto non era concesso. Erano tempi di Controriforma e la Chiesa mostrava molta cautela nell’autorizzare il culto di nuove reliquie. Intanto l’incessante pellegrinaggio popolare verso la sacra Spina e il moltiplicarsi dei miracoli ad essa attribuiti maturò nella Chiesa l’opportunità di verificarne l’autenticità. A distanza di mezzo secolo dall’arrivo della reliquia, il vescovo di Santa Severina, Francesco Antonio Santoro, avviò un’indagine ascoltando molti testimoni, fra cui quel frate guardiano, Nicola Mauro, ormai centenario.
Nonostante le molte, concordanti, testimonianze a favore della sacralità della reliquia, il Santoro decretò: “La spina custodita in questo convento, spontaneamente venerata dal popolo di Policastro, quale Sacra e miracolosa Spina proveniente dalla corona di N. S. Gesù Cristo, sia sottoposta alla prova del fuoco”. La “prova del fuoco” o “volere di Dio” consisteva nell’accertare definitivamente l’autenticità di una reliquia gettandola fra le fiamme di un braciere ardente e da lì uscirne indenne.
È l’anno 1573. Sotto lo sguardo trepidante dei molti frati presenti, la Spina fu gettata fra le fiamme, ma prodigiosamente, dopo qualche istante saltò fuori dalle braci ritornando nel calice da dove era stata prelevata dal vescovo. Vacillante e intimorito mons. Santoro volle ripetere per altre due volte la prova del fuoco e per altrettante volte si ripeté il prodigio fra l’incontenibile commozione dei frati.
Ancor oggi a Petilia Policastro, fra le sacre mura del vetusto convento della Sacra Spina, il vento della storia, attraversando le maestose e secolari querce, e gli imponenti castagni, continua a sfogliare gloriose pagine di fede e miracoli.
collaborazione di Gigi Parise