Era il 1983 e in febbraio andava in edicola il primo numero della rivista Cittàcalabria (Fatti, problemi, idee recitava il sottotitolo).
Avevo chiesto a Saverio Strati di farci il dono di un suo scritto che sicuramente avrebbe conferito più importanza e credibilità a una testata che si presentava molto ambiziosa.
Strati, con la disponibilità di sempre, accondiscese inviandoci il racconto inedito del suo incontro, lui appena trentenne, con Corrado Alvaro all’apice della sua notorietà.
Un incontro che si concluse con una confidenza, il desiderio coltivato da lungo tempo dallo scrittore di San Luca, di dar vita a una rivista calabrese, scritta da calabresi.
Accogliemmo quel pezzo come un segno, un incoraggiamento ad andare avanti… Di Strati che probabilmente non a caso aveva scelto di raccontarci quell’incontro e di un grande calabrese di cui molto più modestamente avremmo potuto tentare di realizzare il sogno.
(Antonio Minasi)

 

Una rivista calabrese, l’ultimo progetto

 Nel giugno del ’53 Alvaro venne a Caraffa per salutare sua madre. Lo andai a trovare per due sere di seguito. Per due sere volle che uscissimo e facessimo una passeggiata fuori paese. Dentro di me si stabilì subito un rapporto confidenziale col grande scrittore che era veramente un uomo affascinante, semplice, alla mano. In una di quelle nostre conver­sazioni, gli dissi:

“Ho trovato molto interessante quel suo opuscolo: L’Italia rinuncia? È uno scritto che dovrebbe essere più diffuso, più conosciuto”.

Mi dica, mi dica”, fece Alvaro fissandomi con gli occhi formicolanti di sorpresa e di gioia. “È uno scritto che pochi hanno letto; e io credo di essere stato un poco profeta in certe affermazioni.”

“Mi ha fatto capire molti problemi: non si sbaglia quando scrive che del fascismo si risentiranno i residui per più di vent’anni ancora”.

“E soprattutto qui da noi. Giù, nella bassa Italia, il fascismo è più forte e più fiorente che altrove. È facile capirlo: non c’è stata una lotta partigiana; i tedeschi si sono ritirati in tutta fretta. Non c’è stato lo scompiglio e la presa di coscienza che invece ci sono stati al Centro e al Nord. Qui da noi la piccola borghesia vede nel fascismo quel periodo durante il quale i treni camminavano in orario. Era il periodo del cosiddetto ordine… E uno studio, quello mio, che andrebbe approfondito”.

“È interessante, il suo scritto, per molti altri aspetti. Dice una grande verità quando parla di quei professionisti che arrivati alla laurea non leggono più un libro; e quando racconta di quel medico che, nel prestarle una copia dei Promessi Sposi, le dice: il libro può tenerlo, tanto gli studi li ho finiti da un pezzo”.

“Vive a questa maniera, la gente: indifferente a tutto ciò che è cultura. Prendere il diploma, la laurea per trovare al più presto un posto. La nostra epoca è una delle più tragiche di tutti i tempi. Si studia non per imparare, per arricchirsi di conoscenza, ma per non lavorare con le braccia e a que­sto si aggiunga la corsa al posto, l’adattarsi alla situazione, forse oggi più che ieri. Quella stessa gente che ieri era fascista oggi è democristiana, senza rendersi conto della responsabilità morale; e il rifiuto a usare la testa per pensare… Sì, le masse imparano a leggere, gli analfabeti diminuiscono di anno in anno: come si legge, cosa si impara a leggere, cosa si legge? Giornalacci rivoltanti per il basso livello mentale vengono divorati, sono pane quotidiano, diventano mentalità, dove andremo a sbattere di questo passo?… La mancanza di scuole di avviamento, di organizzazione. Già in alta Italia è diverso. Da noi ad ogni passo c’è un liceo classico. Bisogna svecchiarsi, nulla da fare”.

Si trovarono a passare dei ragazzi scalzi e malvestiti. Si piazzarono a pochi passi da noi e si spingevano e ridacchiavano.

“Da dove venite”? domandò loro Alvaro.

Risero insieme dandosi gomitate. “Ci date cento lire”? disse allo scrittore il ragazzo più sfacciato.

Ma certo”, fece Alvaro. Prese dei soldi e li porse al ragazzo.

Compratevi il gelato. Da’ anche a loro, non fare il furbo, eh? Sapete leggere”?

I ragazzi mossero la testa in senso affermativo e subito scapparono ridendo e vociando.

“Poveri ragazzi”! esclamò Alvaro. “Se si fanno male a un dito del piede, sangue e polvere si mescolano insieme e di conseguenza infezioni e in qualche caso anche il tetano”. – È raro che prendano un’infezione, – dissi. Siamo stati tutti abituati a camminare a piedi nudi. Alla loro età anch’io mi toglievo le scarpe, d’estate e inciampavo e sangue e polvere si mescolavano e mai ho preso un’infezione. “Qualche volta me le tolsi an­ch’io, ma di nascosto”, confessò Alvaro; e cambiando subito tasto: “Se lei rilegge attentamente Gente in Aspromonte si accorge indubbiamente da sé come quello sia un romanzo interrotto. Mentre lo scrivevo, mi accorsi che spuntavano molti problemi scottanti. Erano anni difficili e certo non mi avrebbero stampato il libro. Tagliai, sfumai. Comunque parecchie cose sono già dentro che a buon intenditore dicono tutto della condizione della nostra gente”.

Ero contento che Alvaro mi parlasse di queste cose come se ci si conoscesse da sempre; e nello stesso tempo mi stupivo com’egli passasse bruscamente da un argomento a un altro. Quando tornammo al paese, anche la seconda sera lo accompagnai fino alla porta di casa. La strada era animata di donne sedute davanti alle porte. C’era seduto nel vano di una finestra del piano terra la figlia di un pastore. Una splendida ragazza sui sedici, diciotto anni: il collo lungo, il viso roseo e delicato, i capelli a corona e gli occhi grandi e dolci. Alvaro si fermò per qualche istante e la guardò con ammirazione. La ragazza divenne di porpora, non sapeva dove nascondere le mani. Si alzò e rientrò.

Ha visto”? mi disse Alvaro. “Ha visto che segni di nobiltà ci sono nel volto di quella ragazza? Altro che miss Italia e miss mondo”!

Quando ci licenziammo lo ringraziai del piacere e dell’onore che mi aveva dati a farmi stare in sua compagnia così a lungo.

“Ma che dice? Mi fa piacere stare con i giovani e poi con un calabrese che ama studiare, che vuole emergere… Se qualche volta le capita di recarsi a Roma, mi venga a trovare”.

Lo andai a trovare insieme a Walter Pedullà due anni dopo nella sua abitazione di Piazza di Spagna. Fu più cordiale e più alla mano di prima. Ci parlò a lungo dei problemi della Calabria vista dalla sua angolazione d’intellettuale di primo piano più che da scrittore. Era il periodo dell’operazione Marzano.

“La prima cosa che faccio, la mattina, è di leggere i giornali. Mi preme molto da vicino sapere quello che succede laggiù… I giornalisti stanno fa­cendo un gran chiasso; ma nessuno di essi riesce a capire che la malavita calabrese, almeno finora, non è la mafia siciliana. La malavita calabrese conserva ancora le caratteristiche della vecchia cavalleria… Ecco quel Romeo che si costituisce, ma prega il questore di poter fare un banchetto al quale devono partecipare il questore stesso e i poliziotti. Mi pare molto cavalleresco questo gesto e sotto c’è anche della nobiltà. In Sicilia una cosa del genere non potrebbe accadere”.

Nel discorso che seguì, ci confidò che aveva in mente di fondare una rivista mensile scritta da calabresi che parlassero soltanto della Calabria e dei suoi problemi. Il titolo doveva essere, se ricordo bene: La Tribuna dei Calabresi. Fece mentalmente insieme a noi un preventivo delle copie che si sarebbero potute vendere e in Calabria e nel resto d’Italia e anche all’estero per via dei suoi amici. Ci chiese chi secondo noi dei calabresi avrebbe potuto collaborare con articoli intelligenti.

“Laggiù dovrebbero smetterla, – aggiunse, – di scrivere certe rivistacce piene zeppe di poesie d’amore. Questo petrarchismo fuori tempo e fuori posto, contro senso e malato, dà molta noia, quando poi si pensa che c’è gente che muore di fame e i disoccupati aumentano e gli analfabeti non diminuiscono. Quelli che scrivono queste strane poesie non hanno occhi per guardarsi in giro?”

E dopo una pausa aggiunse: “Penso da diversi anni di fondare questa rivista e ritengo che un tremila copie dovremmo venderle. Ci vorrebbero circa due milioni. I soldi potrei averli da qualche banca o da qualche industriale… Se mi riuscirà di cominciare, voi naturalmente potrete mandarmi dei lavori” e rivolto a me: “Ho letto il suo racconto su Nuovi Argomenti. Lavori, lavori e vedrà che solo il lavoro le darà un po’ di soddisfazione.” E stringendomi la mano sulla soglia della porta: “Mi scriva, così la terrò informata della rivista”.

Si era nell’ottobre del 1955. Nel giugno del 1956 Alvaro, logorato d’un male imperdonabile, moriva, lasciando un vuoto incolmabile nella cultura italiana.

Saverio Strati in una foto degli anni ‘70

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