Blacaman, al secolo Pietro Aversa, detto sprezzantemente «u zingaru», partì da Castrovillari per il mondo e con le sue stupefacenti esibizioni conquistò fama e ricchezza tenendo col fiato sospeso intere platee in Europa e negli Stati Uniti.
Giulio Palange
Nella seconda metà degli anni ’20 del ’900, nel giro internazionale dello spettacolo irrompe un personaggio fin lì mai visto prima, manco nel milieu degli scavalcamontagne, il “fachiro indiano” Blacaman, ed è subito successo via-via più stupefatto e stupefacente, ché le sue esibizioni son comunque di quelle da fiato sospeso in quanto -“uomo che si diverte con la morte” – mette sempre in gioco la propria vita: oltre agli esercizi «fachirici» di routine, tipo camminare su carboni ardenti manco fossero un soffice prato all’inglese, o far frantumare a colpi di gravosa mazzetta un macigno che tiene poggiato sul petto, e ad esibirsi come ventriloquo e illusionista e tante altre cose ancora comunque alla portata di qualsiasi mezzemaniche circense a corto di fegato, talento e fantasia, egli, primo al mondo, sale a piedi nudi su una scala i cui pioli son spade affilatissime sistemate di taglio, e in cima alla quale s’impicca ad un gancio rimanendovi per parecchio sospeso.
Oppure, si esibisce come «ipnotizzatore animale» (sic!), e, in forza anche di un «complicato gergo italiano» pronunciato in catturante litania, ipnotizza caimani e leoni, coi quali gioca pericolosamente, e i giornali sottolineano che «ha ridotto il turbolento re della foresta alla sua volontà, senza frusta, cerchi o altri accessori circensi»; oppur’ancora, – e, udite-udite!, ché questa è per davvero la performance che gli assicura fama e considerazione nel vecchio come nel nuovo mondo -, si fa seppellire vivo rimanendo sottoterra per oltre mezz’ora.
Che si esibisca in uno stadio, in un teatro o sotto il tendone d’un circo, non cambia, è sempre il tutto esaurito; per cui gli impresari d’Europa e d’America se lo contendono a suon di conquibus; fa spettacolo nei maggiori teatri del mondo; mette addirittura in ombra la fama del mitico Houdini; ad Holliwood fa un film da protagonista, You Can’t Cheat an Honest Man (Non si può truffare un uomo onesto), diretto da George Marshall, interamente girato in un circo del gruppo Barnum-Bailey, e una scena del quale – lui che fuoriesce dalle fauci disserrate d’un coccodrillo – si segnala fra le sequenze cinematografiche memorabili, più o meno come il King-Kong sul grattacielo.
Ovunque vada, qualunque cosa faccia, lo accompagna un alone di mistero su cui egli marcia parecchio – quando non si ci mettono anche gli altri ad alimentare lo stesso mistero, come, ad esempio, allor che un giornalista del Bill Board pubblica che Blacaman è morto mentre giocava sottoterra con la morte, e alla sua «resurrezione» ci si chiede: «La notizia della morte di Blacaman è stato l’errore di un giornalista, una trovata pubblicitaria intelligente, o è stato lui a ritornare in vita per vero miracolo?» – ben sapendo che il non-detto dice, invece, assai perché intriga, solletica la fantasia della gente e accresce la sua capacità di richiamo, moneta sonante nel barnum dello spettacolo; e ci marcia soprattutto tenendo bocca cucita su tutto ciò che lo riguarda personalmente se non per alcuni precisi particolari, sì che, al di là del nome di battesimo, Pietro, non si sa chi veramente sia e come si chiami (ancor oggi nelle pubblicazioni specifiche è citato come «Pietro Blacaman»), si ignora la sua nazionalità, da dove provenga (anche se dovrebbe destare un qualche sospetto, ma non lo desta, la circostanza, parecchio allusiva, che, in ogni città in cui si esibisce, egli si cerchi aiutanti originari di Castrovillari, come a voler simbolicamente rinnovare un qualche legame), dove sia stato e cosa abbia fatto prima dello strepitoso esordio. In ogni caso, le physique du rôle ce l’ha e della miglior pezza, da madre natura cucitogli addosso su misura: sguardo tenebroso e infuocato, minimo indispensabile d’ossa e carne compensato da un eccesso di barba e capelli che tiene sparati e cespugliosi come il tizio della pubblicità dei pennini.
Insomma, se uno vuole immaginarsi un fachiro indiano basta che pensi a lui! Solo che indiano lo è nella misura in cui era turco il turco-napoletano di Totò: in realtà, si chiama Pietro Aversa ed è nato nel 1902 appunto a Castrovillari, ai piedi del Pollino; e se è diventato quel che è diventato certo lo deve anche al fatto d’esser nato e cresciuto non nella catatonia solagna d’una piccola patria a casa del diavolo, ove i giorni e gli orizzonti son sempre conclusi, ma giusto a Castrovillari, da dove ogni giorno si parte, ma, pure, si arriva, essendo, la stessa Castrovillari, l’ultima o, secondo la direzione di marcia, la prima stazione di posta calabrese lungo la strada pel mondo di fuori; e c’entra pure un’intelligenza assai sveglia e con spunti bislacchi, e l’argento vivo in corpo, popolano con le pezze al sedere che una ne fa e cento ne pensa, e, uccello dei cieli franchi, con febbrile impazienza di cercarsi miglior destino altrove, brucia infanzia e adolescenza per le trazzere delle «vigne» battute dai venti gelidi che rotolano giù dal Dolcedorme, inseguito dall’ingiuria «’u zingaru», blasone dovuto, forse, all’estrema indigenza familiare, forse al poter per davvero vantare sangue nomade, forse alla sua vita sempre in mezzo alla strada.
Finché un giorno non transita da Castrovillari un circo equestre e lui gli s’aggrega come lavorante tuttofare – in definitiva, emigrante come tantissimi altri, con la sua grama “mappata” in spalla -, e di Pietro «’u zingaru» si perdono tracce e memoria per anni, impiegati – fa capire poi lui – a raggiungere l’India con relativi fachiri, che gli appalesano l’innato talento e gli svelano i loro segreti. E quando ritorna in circolazione – barba e capelli assatanati, un sontuoso turbante all’indiana in testa, sempre attorniato da tenebrosi assistenti anch’essi inturbantati – è in ogni senso un altro da prima, ché il bozzolo de «’u zingaru» ha partorito la farfalla del «fachiro indiano», ed è mistero nel mistero chi o cosa abbia potuto condurre un cristiano senza proprio studio e ricco manco d’un centesimo farlocco, a diventare uno che ce l’ha fatta in un àmbito sideralmente distante dalla cultura d’origine. E via-via il suo vivere, comunque avventuroso e sempre sotto il segno della straordinarietà, diventa pane per la fantasia popolare e per le cronache dal mondo dello spettacolo, che costruiscono su di lui leggende a sazio, fra cui quella che è una spia dell’Ovra, l’occhiuta, invasiva polizia segreta del regime fascista.
Poi, subito dopo il secondo conflitto mondiale – nel frattempo ha impalmato una diva teutonica, facendo anche del matrimonio un evento puntualmente strombazzato dai media – la sua carriera prosegue, sì, ma non più spopolando come prima, e non perché siano in qualche misura svaporati i suoi poteri, ma è che la gente ha da leccarsi le ferite di guerra e da ricostruire su macerie, e, per il momento, tiene poca testa per i leoni ipnotizzati e le arrampicate sulle lame di affilatissime spade. Finché, nel 1949, la «comare secca» non coglie a volo l’occasione per rifarsi di tutte le umiliazioni da lui inflittele nei loro duelli circensi e, con un decesso qualunque, se lo porta via di subito, così banalizzando l’epilogo di un’esistenza d’eccezione e impedendogli di sconfinare nei territori del mito.
Ma uno di questi giorni Blacaman certamente ricomparirà, ultracentenario ma sempre capace di stupire coi suoi esercizi da fachiro più vero dei fachiri veri che, magari, son anche capaci di schiacciare una pénnica su un letto di chiodi, ma non certo di sopravvivere a se stessi.
D’altronde, la sua specialità non era forse quella di restare a lungo sepolto per poi puntualmente “resuscitare”?!