Giulio Palange
Anni e anni fa, alcuni pescatori del luogo furono sorpresi in mare da una tremenda burrasca, e poiché si resero conto che continuando quella musica si potevano cantare da soli il requiem, fecero voto alla Madonna che, se li avesse salvati, le avrebbero creato una cappella nella grotta di tufo – Piedigrotta – affacciata sulla spiaggia del loro paese. I pescatori si salvarono, e siccome chi gettava il sangue sul mare per guadagnarsi la magra campata, sapeva bene che, a non mantenere un voto, prima o poi si facevano i conti con chi governava le onde, i venti e le burrasche, la loro non fu una «promessa di marinaio»; scolpendo le pareti e le gobbe della grotta, crearono la cappella: una grande statua della Madonna col Bambino in una nicchia sovrastante un altare, anch’esso scolpito del tufo, e davanti al quale, per farla completa, modellarono addirittura un sacerdote officiante.
Loro, i pescatori scampati alla burrasca, ebbero l’idea originaria e la realizzarono, gli altri, quelli, cioè, che in seguito si misero nelle mani sante della Madonna, completarono l’opera: dando libero sfogo al loro immaginario, via via scolpirono nel tufo statue di santi, grandi angeli dalle ali spiegate, bambini raccolti in preghiera, enormi pesci…
Ed oggi, a chi nella chiesetta di Piedigrotta riesce a scordarsi completamente del mondo di fuori, è concesso d’assistere a un prodigio: gli angeli si sollevano in volo sotto la bassa volta, il Bambino ride d’innocenza e affoga negli occhi dolcissimi della Madre, il sacerdote prende a officiare con gesti lenti e ieratici, gli enormi pesci guizzano nel loro improbabile mare, i fanciulli qua e là inginocchiati disserrano le labbra di pietra per mormorare «Signuruzzu faciti bon tempu / ca me’ patri è subbra lu mari / e mi porta li scarpi d’argientu / Signuruzzu faciti bon tiempu».
(Bambinello fate che ci sia bel tempo / perché mio padre è in mare / e mi porterà scarpe d’argento / Bambinello fate che ci sia bel tempo).
Il peccato di Gioacchino
Son passati quasi due secoli, ma ancora oggi persiste una zona d’ombra nella memoria collettiva di Pizzo, un sotterraneo senso di colpa per avere sulla coscienza la cattura e, quindi, l’esecuzione di Gioacchino Murat, re molto amato dal popolo.
Ha pure un nome questo senso di colpa, la gente del luogo lo chiama «’u peccatu ‘i Giacchinu», e la sua manifestazione più evidente è proprio nel come si è cercato di museificare, enfatizzandoli oltre misura, i giorni di prigionia trascorsi dal re nel castello del luogo e la sua fucilazione nel cortile dello stesso castello; fra l’ altro e per ironia della sorte, «cuor di leone e testa d’asino», come Murat era stato definito dal cognato Napoleone Bonaparte, fu giustiziato in virtù d’una legge da lui stesso promulgata e per la quale era comminata la pena di morte a ogni civile trovato in possesso di armi — da qui, per inciso, il modo di dire proverbiale «Giacchinu ‘a fa, Giacchinu ‘a pata» (Gioacchino la fa, Gioachino la subisce).
Legge o non legge, resta, comunque, che i pizzitani si portano lo scrupolo d’avere, con un comportamento più isterico che cosciente, catturato a furor di popolo Murat, quando, all’indomani della restaurazione borbonica, e proprio fidando sull’amore sempre dimostratogli dalla gente qualunque, egli sbarcò con pochi uomini sulla spiaggia di Pizzo per impadronirsi nuovamente del regno. Tant’è che già il 15 ottobre 1815, gli stessi pizzitani che otto giorni prima avevano trattato il re come un volgare bandito di strada, in ginocchio e piangendo assistettero all’inumazione della sua salma nella locale Collegiata di san Giorgio.
Ma quell subitaneo pentimento non bastò ai pizzatini per nettarsi la coscienza, e da allora hanno interpretato qualsiasi evento tragico che abbia colpito la comunità, come rata della cambiale in bianco da loro fermata con il «peccatu ‘i Giacchinu».
Nel Castello dove Gioacchino Murat fu condannato, oggi quella vicenda è rievocata nell’apposito Museo creato negli stessi ambienti dell’epoca. I principali protagonist sono presenti con molta veridicità.
Ma il momento più importante del ricordo è la rievocazione ogni anno, in estate, di quell’evento , stavolta con personaggi in carne ed ossa, di cui alcuni generosamente si prestano a cadere sotto il fuoco che avrebbe dovuto essere “amico”.
Probabilmente – supponiamo – l’attrazione più grande sia quella del mare su cui Pizzo si specchia dalla sua piazza centrale, autentico salotto cittadino.
E il gelato, il famoso “tartufo”? Bene, lo travate qui