Dopo un consulto abbastanza complesso e anche “abbastanza tormentato” il vescovo di Mileto decide dunque di far rinchiudere la ragazza nel manicomio di Reggio Calabria. Ma era stata proprio questa, alla fine, la soluzione migliore che il vescovo di Mileto era riuscito a trovare per assecondare le indicazioni ricevute da padre Agostino Gemelli.
Identica trafila, ce lo ricordano gli studiosi di questi temi, venti anni prima era capitata a Padre Pio.
Anche allora, nel caso del frate di Pietrelcina, padre Gemelli aveva avvertito i medici che allora lo seguivano a San Giovanni Rotondo: “State attenti, le ferite che il frate presenta alle mani e ai piedi sono ferite che si procura da solo”. E poi ancora: “Controllatelo, e se potete isolatelo”.
La storia si ripete.
Ma le sorprese non mancano. Per la giovane Natuzza, una volta rinchiusa in manicomio a Reggio Calabria, incomincia una nuova vita, inizialmente difficile e per certi versi anche “violenta”, ma solo perché l’ingresso in manicomio per una giovane donna come lei non poteva non risultare una “violenza inaudita” e una scelta ingiustificabile sotto tutti i profili.
Ce lo ha ricordato più volte lei stessa, quando era ancora in vita, e quelle rarissime volte che aveva accettato di parlarne con noi, aveva trovato anche la forza per sorridere di tutto questo.
Ma anche qui, in manicomio, non si fermano i fenomeni straordinari che caratterizzeranno poi il resto della sua vita fino al giorno della sua morte, e questo a partire, per esempio, dalle essudazioni ematiche.
All’interno del manicomio Natuzza vive infatti, e ripetutamente, il mistero del sangue, che le compare dalla fronte, dal petto, sulla spalla, sulle ginocchia, e anche qui in manicomio i suoi biografi raccontano delle sue visioni straordinarie, dei suoi dialoghi con la Vergine Maria, dei suoi continui “incontri ravvicinati” con i morti, della padronanza con cui la ragazza descrive le anime del purgatorio, o gli angeli del paradiso, e delle mille “certezze” che trasudano nel modo come Natuzza stessa raccontava di essere stata negli angoli più lontani e più sperduti del mondo, pur non essendosi mai allontanata dalla sua terra natale, effetto probabilmente di un fenomeno che gli antropologi chiamano “bilocazione”, e su cui – ricordiamo- il fisico Valerio Marinelli ha appena dedicato un saggio.
Tutto questo, evidentemente, pur essendo questa volta un manicomio la nuova casa di Natuzza, trasforma il rapporto personale di Natuzza Evolo con le suore a cui è stata affidata. Ma accade la stessa cosa persino con i medici e con le infermiere del manicomio reggino, che non la considerano più una “malata psichica”, o peggio ancora una “sorvegliata speciale”, ma che la guardano invece con senso di rispetto, quasi di sudditanza psicologica, proprio per via di tutti questi fenomeni straordinari e paranormali che Natuzza si porta dietro.
Persino le suore si rivolgono a lei per chiedere la “grazia della Madonna”, e persino i dipendenti del manicomio vanno continuamente a trovarla per chiederle “notizie particolari” dei propri cari defunti. Insomma, Natuzza diventa un “fenomeno straordinario” anche qui in manicomio, e la sua presenza condiziona e stravolge nei fatti la vita stessa dell’intera struttura.
Il primo a capirlo e a rendersi conto dell’effetto “Natuzza-Evolo” è il direttore del Manicomio, il prof. Annibale Puca, il quale ad un certo punto si convince che è meglio che Natuzza torni definitivamente, e “assai presto”, a casa sua.
Sembra quasi incredibile, ma quando il medico la chiama per comunicarle che “poteva finalmente tornare da dove era venuta” perché non c’era più motivo che lei restasse a Reggio Calabria, Natuzza manifesta al professor Puca il desiderio intimo, e forte anche, di poter diventare finalmente suora, e rimanere così in ospedale per sempre con le “sorelle che tanto l’avevano amata”.
Ma il vecchio psichiatra non si lascia commuovere. Ritiene invece che la soluzione ideale per la ragazza non sia il noviziato ma una vita normale, e il giorno in cui a Reggio Calabria arrivano i parenti più stretti di Natuzza per riprendere la ragazza e riportarsela a Paravati consiglia loro di aiutare Natuzza a “convolare a nozze”.
“Natuzza deve sposarsi”, “Trovatele un marito”, “Deve soprattutto diventare donna e madre”, “Con la cura dei figli riuscirà a guarire una volta per sempre”, e solo così forse “la sua vita potrà tornare finalmente normale”.
Dopo aver trascorso due mesi pieni a Reggio Calabria, Natuzza lascia quindi, una volta per sempre, l’Ospedale Psichiatrico e torna in paese, dove qualche mese più tardi si unisce in matrimonio con l’uomo che le resterà accanto per il resto della sua vita, Pasquale Nicolace, un falegname del luogo.
Matrimonio combinato, ma in quegli anni e soprattutto in Calabria era una pratica ricorrente, quasi normale, molte donne si sposavano addirittura per procura, e da questo momento Natuzza diventerà madre di cinque figli, Salvatore, Antonio, Anna Maria, Angelo e Francesco Nicolace oggi tutti felicemente sposati. A pregare sulla sua tomba oggi ci sono anche undici nipoti e tre pronipoti.
Ma diversamente da quanto gli psichiatri avevano immaginato e preannunciato per lei, le manifestazioni straordinarie e inspiegabili che avevano portato Natuzza Evolo in manicomio continueranno a verificarsi come prima, e per tutti gli anni che le rimarranno da vivere.