Domenico Zappone

Siede tutta sola presso la finestra e si fa vento con un cartoncino. È una donna avanti negli anni, un po’ curva, con belle mani forti, giovanili, mani che hanno fatto il pane fin quando hanno potuto. Veste di nero e calza babucce di panno. I capelli, radi e bianchi, divisi da una sottile riga, son pettinati a treccine, tenute ferme al sommo del capo da una fettuccia.

È una qualsiasi donna di paese senza nulla di eccezionale la madre di Corrado Alvaro, e questo un poco delude, perché la madre di uno scrittore chi sa uno come se l’immagina, chi sa quali segni vorrebbe scorgerle negli occhi o sul viso.

Come io entro nella stanza che è nuda, disadorna, con un piccolo letto di ferro e uno stipo a muro, Antonia Giampaolo non alza nemmeno per curiosità il capo, ma continua quietamente ad agitare il cartoncino. Ha davanti sui braccioli di una sedia un fascio di calze, ma. «C’è tempo per rivederle» sembra pensare, chiusa in una sua impenetrabile dimensione.

«Questo signore è un amico di Corrado» le fa ora il figlio don Massimo, chinandosi verso di lei, che, con lentezza, muovendo appena la fronte, mi osserva senza interesse, né mi chiede come stia il figlio lontano quando le dico, fingendo, che Corrado sta bene e a mio mezzo le manda tanti saluti, o vuol sapere nulla della nuora, del nipote. «Corrado sta bene e le invia tanti cari saluti» ripeto dopo un attimo per avviare il discorso, e quella continua a fissarmi in maniera curiosa, quasi avesse un peso sulla nuca.

Foto Don Massimo

Adesso le chiedo come si sente dopo la malattia di due anni fa. Con esile voce: «È caldo» risponde, come per dire che sta male a causa del caldo; infatti è affannata, pallida, parla con fatica.

Scorgo dalla finestra le tegole dei tetti vicini. Il paese di Caraffa, sulla costa jonica calabrese, arde nella vampa d’agosto in un calmo delirio bianco, e questo palazzetto decrepito, di un tardo Rinascimento corrotto, va paurosamente in rovina. Di colpo ho la percezione di aver turbato un ordine, un antico ritmo fatto di gesti e di echi, sicché, intimidito dalla stessa mia voce, sto per andarmene in punta di piedi, quando, non so come, mi induco ad un ultimo tentativo, e, indicando le calze, dico che anche Corrado usa, d’inverno, portarne di simili, che tengono ben caldo e preservano dall’umidità; ma la donna, di impeto, solleva il capo, risponde che suo figlio non usa quelle calze. «Usa calze di seta» obietta vibrante; e ormai il gelo è rotto, il discorso, magari intervallato da lunghe pause, è ormai avviato.

«Era un figlio d’oro, da bambino, un vero figlio d’oro» mi dice «che non diede mai un dispiacere né a me né a suo padre. Tutti a San Luca gli volevano bene, e i compagni lo rispettavano come un comandante; ma lui ad una cert’ora interrompeva il gioco, veniva sotto la finestra: “È l’ora?” chiedeva al padre, e quello gli rispondeva che non era l’ora, che avrebbe pensato lui a chiamarlo e perciò giocasse in pace; però Corrado quel pensiero ce l’aveva ormai in testa, il gioco non lo divertiva più».

Questo il primo ricordo della madre, che rievoca trasognata, come se parlasse a se stessa, poi ricade nel solito mutismo, in quel suo modo di essere assente e presente, per cui la battuta è sempre improvvisa o imponderabile. Infatti, come risvegliandosi, dopo un poco sillaba: «A quei tempi Corrado era il più sapiente che ci fosse a San Luca; quando andava alla dottrina dallo zio Giampaolo, quello che primo intuì le qualità del ragazzo e ne parlò al padre, ricordava tutto a mente. All’uscita di chiesa le donne se lo contendevano, volevan che lui ripetesse quanto avevano udito e già dimenticato». (“Le donne erano giovani – che mi stringevano fanciullo – ai polsi e alle ginocchia – dicendomi: Canta l’inno della Madonna, – e io mi smarrivo nei loro occhi”). E poi: «Sempre mi veniva alle gonnelle, diceva che un giorno mi avrebbe comprato un pettine, un piatto, una scodella e una poltrona d’oro». (“Quando i figli sono grandi non trovano più la via per dire le parole buone di un tempo, e tanto meno quelle che i ragazzi poveri sanno dire, come per esempio: Quando sarò grande ti farò una pentola d’oro, un piatto d’oro”). «Mi chiedeva spesso se gli volevo bene, almeno quanto lui me ne voleva, e si spazientiva se tardavo a rispondergli». (“Vostra madre vi vuol bene? chiese Florestano. ‘Molto me ne vuole’. Gli si inumidirono gli occhi, a tradimento, come se sentisse curva la voce materna. ‘Me ne vuole, ma siamo abituati ormai a pensarci da lontano. Me ne vuole come se mi avesse perduto, e io lo stesso, Ma lei sa sempre dove io mi trovo”).

«S’incantava a Natale davanti al presepio, e il padre sempre gliene costruiva uno in casa. Una volta che Corrado rimase un poco più a lungo in chiesa per la cerimonia dell’Epifania, quando rientrò e vide che il padre aveva già distrutto il presepe, pianse come se gli avessero strappato il cuore. A Roma poi volle che gli spedissimo i pastori da Gioiosa».

Sono nitidi i ricordi che la madre ha del figlio fanciullo, di quando era a San Luca e se lo vedeva sempre dattorno come un caprettino bizzarro. Poi c’è una frana nella memoria, un vuoto buio e amaro, squarciato qua e là da qualche balenìo. La madre infatti non ricorda (o dice di non ricordare) nulla di quando Corrado andò a studiare a Catanzaro e dopo a Montefiascone, di quando partì soldato, tornò ferito, si trasferì a Roma, a casa veniva ogni quattro o cinque anni, s’era fatto di colpo grande, gli stampavano i libri, s’era per sempre svezzato. Soltanto ricorda che quando spedirono a casa la sua cassetta d’ordinanza, mentre lui era all’ospedale pieno di ferite, tra le tante cose trovò anche una lettera di donna. «Ad una ad una bacio le sue ferite» c’era scritto. «Era una contessa o una marchesa» precisa la madre con orgoglio, perché il figlio era povero, i suoi nonni erano pastori sull’Aspromonte.

«Corrado quando veniva qui non parlava mai dei suoi libri, noi non sapevamo niente delle sue cose. Si mostrava semplice, ingenuo, attento alle cose della casa, come un buon figliolo che ritorna dopo tanto tempo nella sua casa e trova tutto cambiato e se ne duole. Venivano le sorelle dalla marina, venivano gli amici. Lui, però, appena restavamo soli, tornava a chiedermi come stessi, sempre dandomi del lei, voleva sapere cosa mi desiderasse il cuore. Era un figlio d’oro… Poi andava in cucina. Gli piaceva assaggiare i cibi, e un po’ mi faceva spazientire. Per farmi piacere trovava buona ogni cosa. A tavola studiava il colore del vino, lo guardava controluce, lo lodava. Così faceva con la frutta. Carezzava le pesche come la guancia di un bambino. Quando andava al paese si fermava con la gente più umile, si sforzava di parlare il dialetto di un tempo. Mi faceva un tantino ridere quel suo modo di parlare, figlio d’oro».

Mentre che la madre dice, bruscamente passando da un ricordo all’altro, spesso interrompendosi, don Massimo trattiene a stento il pianto. Gli leggo dentro una sofferenza che vorrei alleviare e non posso. Di nascosto gli stringo le mani.

«Io ero il fratello piccolo, c’erano vent’anni di differenza tra noi, perciò le nostre vite sono state diverse, anche se lui mi fu sempre vicino, quasi un secondo padre. Solo una volta stranamente fummo ragazzi, e fu quando due anni fa lui venne a Caraffa per l’onomastico della mamma, il 13 di giugno. Erano le undici del mattino. La festa era ormai finita. Erano rimasti i tamburini per le strade ad augurare di porta in porta le buone feste. Mentre leggevo il breviario, mi sentii chiamare, ma non ci feci caso. Come la voce risuonò daccapo, mi voltai. Era lui in compagnia della moglie. Subito ci recammo a casa. Si buttò ai ginocchi della madre, le baciò le mani, quasi piangeva. Aveva voluto farle quella improvvisata, ed ora era felice per lo scompiglio che aveva creato. A tavola parlò del colono, del suo fondo di Vallerana, della vigna, del noccioleto, degli alberi che aveva piantato con le sue mani.

Il giorno appresso volle vedere il nostro paese, ma da lontano. Andammo assieme fino a Casignana, che è distante da qui un chilometro. Una donna ci invitò a entrare nella sua casa. Corrado vide la casa pulita, ebbe belle parole per il letto alto, da farci sonni felici, ne parlò alla donna. Questa lo interruppe. Disse: “Però manca il meglio”, perché rimasta vedova. Corrado fu colpito da quella espressione tremenda, da quella fulminea icasticità. Poi, dalla terrazza, contemplò a lungo San Luca, sull’opposta collina, percorse certo tutti i valloni e le forre della sua fanciullezza, Pietra Longa, Pietra Cappa, ma non me ne fece motto alcuno. Al ritorno volle che facessimo altra strada. Prendemmo un viottolo, ma ben presto ci smarrimmo. Saltammo siepi e fosse, aggirammo valloni e macchie, più volte tornammo sui nostri passi. Più di due ore camminammo. Io temevo che lui si fosse spazientito. Lo stesso pensava Corrado di me. Rientrammo a casa che era notte. Quando gli ricordai a Roma l’episodio, ed era molto malato, mi disse che quello era stato un giorno felice, che tutto era stato bello, come un’invenzione o un inganno della fantasia».

Pietra Cappa

Mentre ricorda queste cose, don Massimo carezza i manoscritti del fratello, i due ultimi libri stampati, il taccuino che contiene quella ninnananna composta dal padre «con una sintassi piuttosto angolosa» e coi due famosi versi: «Sui fanciulli con spade le squadre – farne strage son pronti a obbedir», ed anche lui dice: «Era un figlio d’oro».

Più che mai son pentito di essere venuto in questa casa, ed ora me ne vado pieno di rimorsi. Nel congedo, continuando la finzione, (la madre non sa che il figlio è morto, ha ottanta anni e le hanno voluto risparmiare quest’altro dolore), dico ad Antonia Giampaolo cosa vuole che riferisca a Corrado. «Ditegli di non venire, di riguardarsi, che sta bene dov’è» mormora appena. La risposta m’atterrisce: penso al frammento da Mastrangelina riportato sopra dal manoscritto inedito: “Siamo abituati a pensarci da lontano… Ma lei sa sempre dove io mi trovo” come alle terribili frasi delle sibille o dei profeti, quando l’uomo credeva alle favole e aveva un altro cuore.

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