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Giacomo Casanova. Partì dalla Calabria la sua straordinaria avventura

Giacomo Casanova (1725-1798). Presunto rittrato di Anton Raphael Mengs (Aussig 1728-Roma 1779)

Ermanno Capani

 Sul finire dell’estate del 1743, una carrozza polverosa avanzava traballando sulle sconnesse strade della Calabria. Proveniva da Salerno ed era diretta a Cosenza, lungo un percorso di oltre 140 miglia che a quei tempi non veniva coperto in meno di 22 ore.

Nella vettura un giovane abatino elegantemente vestito non mostrava di accusare la fatica del lungo trasferimento. Attraverso il finestrino il suo occhio vivace scrutava con interesse il paesaggio, per lui nuovo, che gli scorreva lentamente davanti.

Quel giovane altri non era che Giacomo Casanova, allora diciottenne studente di teologia da poco avviato alla carriera ecclesiastica e certamente ignaro della vita turbinosa che gli riservava il futuro. Scopo del suo viaggio era di raggiungere Martirano per stabilirsi come segretario presso il vescovo di quella diocesi. Al prelato egli era stato presentato e raccomandato a Venezia dall’abate Grimani, suo protettore.

Infarcito di nozioni classiche, il giovane abatino era ben lieto di venire in Calabria, nella terra dell’antica Magna Grecia.

In quel momento la sua attenzione era rivolta individuare nelle contrade che attraversava i segni di una civiltà famosa. Ma il quadro che gli si presentava gli rivelò ben presto che la realtà sociale ed economica della Calabria era assai diversa da ogni astratta immaginazione accademica. Per quanto si sforzasse, non gli riusciva infatti di riconoscere in quella regione la terra che Pitagora aveva resa famosa: non un resto dei templi e dei monumenti decantati dagli autori classici, nè era facile scorgere nel portamento della gente l’impronta di un’antica nobiltà.

La sua delusione fu cocente.  Si aspettava di venire in una regione fiorente, ma scopriva ovunque terre incolte, zone deserte e sui volti dei rari abitanti i segni inconfondibili di

una povertà antica. Casanova notò il contrasto fra la bellezza del clima e lo stato di abbandono di quelle contrade. “Contemplavo stupito annotò – il paese rinomato per la sua fertilità, nel quale, nonostante la prodiga natura, vedevo solo l’affligente aspetto della miseria, la mancanza assoIuta di quel piacevole superfluo che rende sopportabile la vita; e la degradazione di quella specie umana così scarsa in una contrada ove potrebbe essere molto abbondante”.

Sceso ad una stazione di posta per il cambio dei cavalli, il giovane veneziano ebbe il primo contatto con la gente del luogo e fu colpito dalle misere condizioni di quei contadini schiacciati dal latifondo e paralizzati da un’economia arcaica quasi del tutto priva di commercio. “Tutto qui – rilevò – è a basso prezzo. I disgraziati abitanti si liberano da un fardello quando trovano persone che si degnino caricarsi dei frutti forniti dalla terra quasi spontaneamente in grande abbondanza e dei quali nessuno sbocco offre loro il minimo prezzo”.

Giunto alfine a Cosenza, Casanova vi pernottò e il giorno seguente noleggiò un calesse per Martirano. Il vescovo Bernardo De Bernardis, calabrese dei Minimi di San Francesco di Paola, lo accolse con affabilità. Il presule, da poco nominato a capo di quella diocesi, aveva allora 45 anni ma presentava un aspetto molto dimesso. Il palazzo vescovile era ampio ma mal tenuto e scarsamente arredato: l’unica servitù era costituita da un vecchio domestico. Come non bastasse, il giovane abatino pranzò male e a sera dovette adattarsi a dormire su un letto di fortuna.

Il posto non gli piacque: tutto gli apparve squallido e inospitale. Il De Bernardis, assai imbarazzato, si scusò spiegando che 1a diocesi era povera, che le rendite erano scarse e confessò che già si trovava indebitato di molto. A quel tempo, infatti, anche nel clero esistevano forti sperequazioni fra l’opulenza delle alte sfere ecclesiastiche ed il basso tenore di vita dei preti di campagna e di alcuni vescovi di diocesi periferiche. Durante la funzione in cattedrale, Casanova ebbe modo di conoscere il clero e i fedeli del luogo: quella povera gente sembrava quasi scandalizzata dei suoi vestiti ben tagliati e dei suoi merletti.

Veramente deplorevole poi la situazione culturale della Calabria, specie nei centri rurali. Il De Bernardis dovette ammettere che nella diocesi era praticamente impossibile trovare buoni libri e che erano ben rari gli uomini che leggevano un giornale e che sapevano scrivere passabilmente. Per non scoraggiare del tutto l’ospite, promise che avrebbe fatto venire dei libri da Napoli e che insieme avrebbero potuto coltivare le lettere, assicurando che avrebbe fatto il possibile per rendergli meno penoso il soggiorno a Martirano.

Abituato all’ambiente raffinato dei salotti di Venezia, Roma e Napoli, Casanova si chiese sgomento come avrebbe potuto a diciott’ anni vivere sepolto in quel paese della Sila senza 1a possibilità di frequentare una biblioteca, un’accademia o un circolo letterario. Maturò pertanto l’idea di abbandonare al più presto quel luogo e, in uno slancio giovanile, propose al vescovo di venir via con lui per tentare assieme la fortuna altrove. Nel lasciare Martirano, il veneziano volle offrirgli in dono un prezioso cofanetto contenente due rasoi col manico d’argento. In cambio il De Bernardis ignorando che Casanova fosse provvisto di denaro e che avesse il baule ben fornito – gli consegnò una lettera di raccomandazione per l’arcivescovo di Cosenza nella quale lo pregava di dare al giovane i mezzi per il suo rientro a Napoli.

Il capoluogo bruzio fece certamente migliore impressione a Casanova. L’ arcivescovo di Cosenza, Francescantonio Cavalcanti, monaco teatino, era uomo facoltoso e pieno di spirito. Abitava in un bel palazzo frequentato da religiosi e da gente di mondo. Egli fu ben lieto di ospitare il brillante abatino al quale presentò varie personalità cittadine: nobili, letterati e artisti. Alla mensa arcivescovile Casanova pranzò divinamente e bevve meglio gustando molto i vini del Savuto. Accettò con piacere di assaggiare alcuni prodotti locali, fra i quali apprezzò particolarmente un formaggio della Sila “la cui perfezione si manifesta quando i piccoli esseri che vi si formano dentro cominciano a diventar visibili”. Trovò poi addirittura “sublimi” i salami calabresi che definì “i migliori mai mangiati”.

Il capoluogo della Calabria Citra finì per conciliarlo definitivamente con l’ambiente. “Cosenza è una città – scrisse ove un uomo per bene può divertirsi, perchè ha una nobiltà ricca, donne graziose e uomini abbastanza istruiti che hanno ricevuto l’educazione a Napoli e a Roma”. Nei tre giorni di permanenza a Cosenza egli visitò accuratamente 1a città. Salì al castello svevo dal quale potè ammirare lo spettacolo offerto dai casali circostanti e dalla sottostante valle del Crati, fece visita al priore del convento di San Francesco di Paola, fu ospite dell’Accademia Cosentina, visitò le chiese e alcuini dei più bei palazzi che nel Settecento sorgevano sul colle Pancrazio. Infine acquistò alcune opere di Campanella, Gravina e Telesio.

Nell’impossibilità di fermarsi ulteriormente, il suo pensiero volava ormai verso altri lidi. Casanova lasciò così Cosenza portando con sè un buon ricordo della città, oltre ad un barilotto di ottimo Gerace dono di un possidente del luogo – e ad una lettera commendatizia dell’arcivescovo per il celebre Antonio Genovesi che teneva a Napoli cattedra di metafisica e di etica e che più tardi avrebbe fondato anche quella di economia politica, la prima in Italia. Con la rinuncia al soggiorno in Calabria e l’abbandono dello stato religioso, prendeva quindi il via la straordinaria carriera del celebre avventuriero veneziano.

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