Giuseppe Antonio Martino
All’Università di Roma, ebbi la fortuna di seguire le lezioni del Prof. Agostino Lombardi, uno dei maggiori studiosi di William Shakespeare. Nessuno, allora, mi pare mettesse in dubbio l’inglesità dell’autore di Romeo e Giulietta, di Giulio Cesare e di Amleto, ma si vociferava che egli parlasse la sua lingua con un forte accento straniero e non si faceva mistero del fatto che non esistono documenti relativi alla sua vita prima della comparsa sulla scena letteraria inglese, tanto che il periodo che va dal 1585 e il 1592 è definito dagli studiosi come “lost years“ (anni perduti).
Alcuni decenni dopo mi capitò di leggere che alcuni studiosi avanzavano seri dubbi sulle origini del “Bardo dell’Avon” e mi incuriosì il fatto che non pochi lo considerino di origini italiane.
Appresi anche che alcuni intellettuali anglosassoni, in passato, avevano tentato di stabilire quali fossero stati i rapporti tra William Shakespeare e gli esuli italiani in Inghilterra, tanto che nel XIX secolo, sull’Enciclopedia Britannica, il caporedattore Thomas Spencer si spinse al punto di parlare di relazioni parentali tra il grande drammaturgo e Giovanni Florio, o John Florio (Londra 1553-1625), compilatore del primo dizionario inglese-italiano (A World of Words), ma l’intero capitolo contente quelle informazioni fu eliminato già nella XI edizione dell’Enciclopedia.
Il 4 febbraio 1927, sul quotidiano italiano L’Impero, il giornalista calabrese Santi Paladino, di Scilla (RC), avanzò l’ipotesi che William Shakespeare fosse lo pseudonimo di Michelangelo Florio, un frate toscano convertito al protestantesimo che, riuscito a fuggire nel 1550, tre anni dopo, in Inghilterra, aveva avuto un figlio, Giovanni, prima di tornare in Italia, tra il 1563 e 1566: da alcuni libri notarili risulta che in quel triennio visse a Soglio, nella Val Bregaglia.
Nel 1955, il giornalista scillese, in un volumetto intitolato Un Italiano autore delle opere shakespeariane (Gastaldi, Milano), fece rilevare le affinità tra la commedia in dialetto siciliano Tantu trafficu pe’ nnenti e l’opera di Shakespeare Tanto rumore per nulla e giunse a sostenere che le opere del bardo dell’Avon, scritte in italiano, furono tradotte e perfezionate in lingua inglese dal figlio Giovanni in collaborazione con un attore di nome William Shakespeare che ne assunse la paternità.
L’otto aprile del 2000, il quotidiano britannico The Times riportava la tesi di un professore di Palermo, Martino Iuvara, che, riprendendo alcune perplessità già espresse anni prima dal Prof. Besta dell’Università di Palermo, sosteneva che il più grande autore della letteratura inglese era, in realtà, di nazionalità italiana. Tra le altre cose Iuvara attribuiva a William Shakespeare il volume, I secondi frutti (Second Fruits), scritto nel XVI sec., contenente seimila proverbi italiani, che in realtà è un’opera di Giovanni Florio, pubblicata nel 1591. Il professore palermitano parlava anche di una biblioteca di Shakespeare della quale non esiste alcuna traccia: forse si riferiva ai libri italiani, francesi e spagnoli (pare 340), che John Florio, con un testamento scritto nel 1625, l’anno stesso della sua morte, lasciò all’amico e protettore Lord William Pembroke.
Con il passare degli anni il numero degli studiosi che contestano la paternità delle opere di Shakespeare è notevolmente aumentato e non pochi propongono John Florio come il vero autore delle opere attribuite al bardo: un’opinione espressa anche da Lamberto Tassinari, nel suo volume Shakespeare? È il nome d’arte di John Florio (Giano Books, Montréal, 2008), ma condivisa anche dal ricercatore Saul Gerevin. Indizi che avallano l’ipotesi secondo la quale sotto il nome di Shakespeare si nasconda proprio John Florio sono stati rinvenuti nella letteratura inglese della fine del XVI sec. da Giulia Harding, una giornalista della BBC radio, e Corrado Panzieri.
Ho espresso i miei dubbi a Panzeri che così ha risposto: “Non mi sorprendo delle sue impressioni […] Saul Gerevini ed io stesso – coadiuvati da un nutrito gruppo di studiosi italiani e stranieri – abbiamo impiegato oltre venti anni in ricerche negli archivi storici italiani, inglesi e svizzeri per entrare in possesso di prove documentali e riferimenti editoriali dei secoli XVI e XVII, grazie ai quali abbiamo potuto ricostruire al meglio le biografie dei due Florio, padre e figlio, ma anche quella, ben più credibile, perché documentata, di William Shaksper (un attore quasi analfabeta di Stratford, erroneamente chiamato Shakespeare da Santi Paladino, n.d.a.). […] Ogni nostra affermazione è suffragata da documenti originali archiviari o riconducibili a precisi riferimenti o trascrizioni editoriali”.
Nella sua e-mail mi parla anche di un dibattito tra il prof. Stephen Greenblatt, docente di Harvard, Gerevini e il prof. Lambert Tassinari di Montreal che è intervenuto con una “lettera aperta”, ma a dire il vero i miei dubbi non sono stati del tutto sciolti.
Andrea Camilleri, su La Stampa, nel 2000, affermò che se Shakespeare fosse di origine italiana non potrebbe che appartenere a quella famiglia Florio che per quasi due secoli stupì il mondo con le sue flotte, le sue industrie e le sue ricchezze ma che, come afferma il Professore emerito dell’Università di Palermo Orazio Concila, non erano di origine siciliana, bensì calabrese: provenivano da Melicuccà, un paesino della piana di Gioia Tauro dominato dai Cavalieri di Malta sin dal 1445 dove era difficile la vita a un medico, Giovanni Florio, convertitosi al calvinismo, che si trasferì a Messina e dal cui matrimonio con Guglielma Crollalanza nacque il figlio Michelangelo in cui, come afferma il Prof. Iuvara, è da riconoscere il bardo e che, in onore della madre, si fece chiamare William Shakespeare (Guglielmo Crollalanza appunto).