Tra quei ruderi sbriciolati dal tempo pare che risuoni una voce: «All’armi, all’armi…» e il castello di Roccella è ancora una rocca su un mare sempre più blu

 

Giulio Palange

 Oggi, a camminare lungo le strade di un paese calabrese, uno qualsiasi, è raro, se non impossibile, ritrovare quell’equilibrio urbanistico e architettonico che ha rappresentato lo sbocco funzionale di un sistema di vita espressosi non per improvvisazione e per caso, ma comunque e sempre in rapporto diretto con un preciso travaglio storico-culturale (e in proposito basti leggere il Padula di Aspetto delle terre e dei villaggi calabresi).

Sì, in una visione d’insieme ritrovi un castello appollaiato su una collina attorno alla quale si sviluppa un gomitolo di stradine incassate fra case l’una dentro all’altra; ma poi, a osservare con più attenzione i particolari ti accorgi dell’intonaco ‘fino’ che ha coperto i muri ‘intrecciati’, della tapparella di plastica che riguarda un balconcino in ferro battuto, del ‘vignano’ che per catarsi bastarda è diventato veranda… E allora non sai con chi prendertela se non si è saputo trovare un giusto equilibrio fra nuove esigenze abitative e memoria storica.

Nel borgo castello di Roccella Jonica, invece, tutto identico a come è stato per secoli, anche se oggi è fatalmente logorato dal tempo e dall’inedia che sbriciolano ogni giorno di più i muri e le mura che pur avendo resistito agli assalti di invasori di tutte le specie, non riescono a rassegnarsi alla loro inutile sopravvivenza. Ma nonostante questo lento, continuo e quasi annoiato rovinio, a Roccella è possibile ancora ritrovare quell’identità urbanistica che una volta accomunava tutti i paesi della Calabria.

Una identità che era sintesi di magnificenza e di miseria operata dalla necessità quotidiana di una autosufficiente vita comunitaria da affrontare fra mille minacce tutte provenienti sempre e soltanto dall’esterno: il gran palazzo feudale, sontuoso, una gran torre medievale posta su una dominante roccia isolata; e intorno a tutto e a tutti una cinta muraria merlata.

ln verità oggi nel borgo-castello di Roccella Jonica ci sono solo fantasmi e rumori e voci. Infatti ogni tanto si leva il grido atterrito «All’armi all’armi… ‘i turchi su’ sbarcati alla marina» e la campana suona a martello e la gente che è in campagna rientra con i tacchi alle spalle entro la cinta muraria e le donne si precipitano in chiesa a pregare Dio onnipotente di tener lontani i diavoli turchi e gli uomini si armano e accorrono sui bastioni del castello. Poi il silenzio dell’attesa… l’attesa dell’aggressore che prima di essere stato turco è stato aragonese, è stato angioino, è stato svevo, è stato normanno, è stato… sempre un nemico di questa terra in perenne stato d’assedio…

Anche e soprattutto per ‘questi fantasmi’ è ancora possibile ritrovare nel suo portale decorato, nei suoi balconi ornati da mensole scolpite a figure e con le sue scuderie adorne di mascheroni litici; e poi, accanto ad esso, una miriade di case anonime nella loro umiltà. Più in là l’imponente e turrito castello angioino con torri e bastioni. lnfine, sulla ‘Rupella’, un’angusta sporgenza, una piccola chiesa dall’esile campanile a vela. Vigile su tutto e su tutti, perché tutti i paesi calabresi stiano lì, aggrappati con le unghie alle falde di un colle, del perché le case, quelle ricche e quelle povere, siano una azzeppata all’altra; e del perché, infine, le strade— si fa per dire! — strette strette e annodate fra loro, arranchino fino alle mura del castello e portino sul sagrato della chiesa.

 

Segni di storia contemporanea

 

 

Anche stavolta giunsero dal mare. Una carretta che nel 2013, colma di dolore e speranze, ha portato centinaia di immigrati sulla costa jonica calabrese, è ora divenuta “murales” al porto di Roccella Jonica.

Messo sotto sequestro e destinato alla demolizione, il barcone è stato trasformato nel significativo “muro” per un graffito in ricordo dei troppi migranti che sono morti nelle malsicure traversate col sogno incerto di un’improbabile terra promessa.

Il disegno di oltre dieci metri è opera dei Cyop&Kaf, artisti napoletani sempre pronti ad affondare tra le pieghe oscure della vita, sempre tesi a diffondere segni “anomali, irrequieti, talvolta inquietanti”, oltre l’immediato, al punto da “infastidire” per colpire. L’installazione è nata nell’ambito della quarta edizione di Straniamenti – originale rassegna di teatro e arti visive (“per un territorio che vuole liberarsi dalla cultura mafiosa”, recitava lo slogan).

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