Una storia straordinaria di ordinaria emigrazione quella del Sen. Renato Turano scomparso all’inizio dello scorso dicembre.
Si è aperto un grande vuoto fra le comunità dei calabresi nel mondo che Turano con tanta passione e serietà ha rappresentato, sia nel corso dei suoi due mandati come parlamentare nella circoscrizione Nord America, sia nella sua attività professionale e associativa
Antonio Minasi
Ho incontrato più volte il Sen. Turano nelle occasioni offerte dalle attività della Consulta Regionale dei Calabresi nel Mondo ma il ricordo più vivo rimane l’intervista per la rivista Itaca, qualche anno addietro, che qui ripropongo.
Il profumo del pane. Quale miglior titolo per un libro che vuol fare memoria di una storia di famiglia? Si avverte un sentimento caldo di cose buone, di affetti, di solidarietà.
A volerlo è stato Renato Turano, originario di Castrolibero in provincia di Cosenza, eletto per la seconda volta senatore della Repubblica italiana nella Circoscrizione Nord America (Canada, Stati Uniti, America Centrale, insomma dall’Alaska al Panama). L’occasione del libro è stata un anniversario importante, «i 50 anni di attività del nostro business» dice Turano e aggiunge «l’abbiamo scritto in inglese per la mia famiglia, per i miei figli». E fatte le dovute verifiche circa vicende e date si passerà all’edizione definitiva in italiano, lingua con la quale è stato originariamente scritto.
Un racconto che parte dal 1860, quando il bisnonno aveva sei anni, e arriva al 2012. Nel mezzo tanti viaggi di andata e ritorno dagli Stati Uniti dei vari componenti della famiglia, incerti se fermarsi o meno. Ambientarsi e mettere un piede saldo non fu facile.
Così anche per il papà di Renato. Nel 1955 va negli USA a trovare il fratello partito tre anni prima. Abituato a lavorare con cravatta e giacca – in Calabria era rappresentante del caffè Sesso – arrivato negli USA, senza conoscere la lingua inglese, la prima occupazione è stata andare a lavorare nelle costruzioni delle fognature. A Chicago il freddo è molto rigido, resiste poco più di un anno. “Non fa per me” conclude. Ma ritornato in Calabria sopravviene il dubbio “forse ho fatto uno sbaglio”. Ci sono tre ragazzi che crescono e si rende conto che il futuro per loro sarà difficile. Così torna in America nel ‘57 e l’anno successivo chiama tutta la famiglia. Renato, è lui il più grande, ha 15 anni.
«Zio Carmine» racconta Turano «aveva un negozio di alimentari con un piccolo forno accanto. Papà aiutava il fratello a fare il pane. Era abituato a farlo, gli piaceva. In famiglia fra sorelle e fratelli erano in nove e ogni due settimane si faceva il pane. Le donne impastavano, gli uomini infornavano. Quel pane ben lievitato, buono, la pagnotta come si fa in Calabria.
«A fine settimana andando a trovare gli amici porta una pagnotta. “Dove hai trovato questo pane così buono?”. L’ho fatto io. “Allora portamelo anche la prossima settimana, anche per la mia famiglia”.
«Io e i miei fratelli più piccoli, Umberto e Giancarlo, l’abbiamo aiutato da subito, soprattutto consegnando, nel vicinato, il pane di casa in casa. È così che è cominciata la nostra attività. Nel 1962 abbiamo iniziato con un forno di appena 60 mq, oggi abbiamo cinque stabilimenti, quasi mille dipendenti».
Posso chiederle con che fatturato?
Renato Turano ride e glissa. «Forniamo pane, diversi tipi di pane. Abbiamo uno stabilimento in Florida, uno in Georgia e tre nell’area metropolitana di Chicago. Il nostro pane arriva nei ristoranti, nelle catene di supermercati. Forniamo istituzioni come ospedali, scuole».
Senatore, quale rapporto ha conservato con la Calabria?
«Quando siamo arrivati negli Stati Uniti papà ci raccomandava di conservare il legame con l’Italia. Diceva “Non si sa mai… Potrebbe darsi che torneremo a lavorare in Italia”. È intenzione di ogni emigrato andare in cerca di fortuna, ma poi ritornare nel proprio paese. Un sogno, penso, che papà ha sempre avuto, fino all’ultimo dei suoi giorni. È morto a Chicago nel 1989, all’età di 76 anni.
«Io e i miei fratelli abbiamo studiato. Ci siamo tutti laureati, ma siamo rimasti sempre uniti in questi cinquant’anni».
Lei che studi ha fatto?
«Economia e commercio. Ho conseguito un master e anche un dottorato».
Se non sbaglio, lei è l’unico calabrese eletto all’estero. Ci rappresenta assieme a tutti gli emigrati italiani. È un po’ un portabandiera…
«Sono stato eletto dal 2006 al 2008. Nella successiva legislatura c’è stato un contenzioso sull’esito elettorale con un altro candidato, ma la Commissione per la Giunta delle elezioni, nel corso di cinque anni, non è riuscita a dirimere la questione. In questa tornata il PD ha ricevuto 26.000 voti, le mie preferenze sono state quasi diecimila».
Ha mai pensato che potrebbe tornare in Calabria? In un ruolo politico o imprenditoriale?
«Ah! Con i fratelli l’abbiamo pensato tante volte, ci sarebbe piaciuto, ma se non l’abbiamo fatto è stato per non dividere la famiglia. Ho sempre pensato che la mia fortezza è la mia famiglia. Ho tre figli, nove nipotini e non posso accettare che non mi siano vicini. Un sentimento trasmessomi da papà».
E se fosse un impegno poco assorbente, per così dire non a tempo pieno?
Una lunga pausa d’incertezza e poi «È molto difficile… difficile».
Però, mi pare che lei sia tornato frequentemente in Calabria…
«Sì, io ho mantenuto i legami che papà diceva, sia con i parenti che con alcuni enti. Sono stato presidente della Camera di Commercio a Chicago, ho fatto parte della Assocamere estere (76 Camere di Commercio nel mondo). Abbiamo fatto accordi istituzionali con le università a favore degli studenti, sia in USA che in Calabria. Con l’Unical è stato un grandissimo successo, cresciuto dal 2006 quando sono stato eletto al Senato. In realtà il meccanismo delle borse di studio era già attivo dal 1992.
Cosa pensa della situazione giovanile?
«Sono molto preoccupato perché il 37,5% dei giovani sotto i 35 anni in Italia non ha un lavoro. Se poi parliamo della Calabria, del Sud, la percentuale cresce.
«Il danno è per il giovane, ma ancor di più per il Paese. L’età tra i 20 e 40 anni è la più produttiva. Il Paese non può crescere se perde il suo braccio produttivo. La soluzione sta nel creare lavoro e quindi crescita, sviluppo. Negli ultimi dieci anni abbiamo perso un’infinità di imprese, anche piccole. L’artigianato è sparito».
Senatore Turano, lei sa che c’è il problema, non sufficientemente all’attenzione delle nostre istituzioni, della lingua italiana all’estero…
«In numerose comunità emigrate siamo già alla quinta, sesta generazione. La grande emigrazione dall’Italia è cominciata intorno al 1900-1920. Negli anni ’40 durante il conflitto mondiale, abbiamo rinunciato all’insegnamento dell’italiano ai figli. Si è cercato di americanizzare i figli. Si voleva che non fossero emarginati, ma pienamente integrati».
Un senso d’inferiorità?
«Oggi l’abbiamo superato molto bene».
Parliamo dei calabresi…
«I calabresi da noi sono molto più calabresi dei calabresi in Italia».
In che senso?
«Nel senso che mantengono le tradizioni; hanno voglia di stare insieme, di associarsi. Anche aiutarsi reciprocamente».
Ma sono pure litigiosi?
«Eh, quello è nel nostro DNA, ma è un problema che si va risolvendo, i giovani hanno una mentalità diversa».
Che prospettive ci sono per gli imprenditori calabresi che desiderano entrare nei mercati del Nord America?
«Sono mercati sterminati. Occorre avere una produzione adeguata alla domanda. Se non sei in grado di riempire almeno un container è inutile provarci. Stiamo parlando di mercati che richiedono almeno 50 container all’anno».
E se le imprese si associassero?
«Questo è il problema, non si associano».
Lei è stato per lungo tempo, anche con incarichi di responsabilità, nella Consulta regionale dell’emigrazione…
«Penso che la Consulta sia una cosa molto utile, dà alla Calabria ambasciatori in tutto il mondo, ma la Regione non li utilizza in modo appropriato. Reinventano la ruota ogni volta. Se c’è un consultore, dovrebbero appoggiarsi a lui quando si recano all’estero, ma spesso è proprio il consultore a saperlo per ultimo».
Torniamo, per chiudere, alla Turano baking company. Quali prospettive?
«C’è una nuova generazione che sta prendendo le redini dell’azienda. Noi fratelli abbiamo deciso che i figli – ce ne sono tre per ciascuno – avrebbero dovuto innanzitutto laurearsi e prima di entrare in azienda lavorare per almeno tre anni, altrove. Il direttivo oggi è quindi composto da nove membri e sei di loro sono impegnati full time».
Senatore, la sento orgoglioso, ma soprattutto molto innamorato del suo lavoro.
«In tutto quello che si fa ci deve essere passione, altrimenti è un lavoro e io posso dire di non aver mai lavorato».